sabato 12 giugno 2010

L'azzurro struzzo volante, sfortunato di nome Willy

L'azzurro struzzo volante, sfortunato di nome Willy
C’era una volta un uovo particolare: molto grande e dal guscio liscio, lucido e colorato d’azzurro.
Un giorno di tarda primavera l’uovo si schiuse e da esso uscì un cucciolo di struzzo che subito volò verso la libertà.
Dopo alcuni giorni di lunghi voli sopra mari, montagne, praterie e campagne, il piccolo struzzo venne avvistato da un gruppo di cacciatori. La loro attenzione venne attratta dalla particolarità di questo struzzo che cantava come un usignolo ed era azzurro come l’uovo che l’aveva contenuto.
I cacciatori non avevano intenzione di ucciderlo bensì di catturarlo per poter fare un bel gruzzolo di quattrini vendendolo al circo.
Lo struzzo era ancora molto giovane e inesperto, quindi, fu davvero facile catturarlo per i cacciatori.
Non appena messo in gabbia, il prezioso cucciolo venne venduto al circo.
Qui fu costretto ad esibirsi col suo canto e il suo splendore davanti a centinaia e centinaia di persone.
La sofferenza che lo struzzino provava per la reclusione e per la frustrazione di sentirsi così sfruttato lo portarono a perdere gradatamente la voce, fino a rimanere completamente muto.
Per fortuna, tra il personale che seguiva gli animali, c’era anche un buon vecchio che comprese che il mutismo dello struzzo era dovuto alla sofferenza. Così decise di prendersi cura di lui per farlo stare il meglio possibile. Ma questo ancora non bastò a fare stare bene l’animale, così decise di ridargli la libertà: una notte serena aprì la sua gabbia e lo lasciò volare via.
Lo struzzo volò immediatamente fuori e, trovandosi molto lontano dal suo luogo naturale, si diresse verso le luci della città più vicina.
Sebbene fosse notte, c’era ancora molto traffico per le strade cosa che disorientava il piccolo, portandolo a cercare disperatamente di evitare tutti i rumori molesti e i pericoli. Tutto questo non bastò perché venne brutalmente investito da un treno.
Lo strano incidente fece scalpore e presto la notizia arrivò anche alle orecchie del custode che subito si allarmò e si mise a cercarlo per tutte le cliniche veterinarie della città. Alla fine lo trovò al pronto soccorso di una clinica, dove il piccolo era stato portato dopo aver perso un’ala per l’impatto violento e dopo esser diventato viola per la paura.
Il custode decise velocemente di portare l’animale nel migliore istituto veterinario della città, dove poter ricevere le migliori cure riabilitative, una volta operato: il San Camillo Vet.
Il cucciolo rimase senza un’ala ma in quest’istituto di cura ricevette amorevoli cure, tant’è vero che il suo manto da viola scuro divenne lilla e, dal mutismo completo, lo struzzo tornò ad emettere qualche piccola nota.
Il custode era felice dei risultati che il suo protetto aveva raggiunto, ma ancora non si dava pace, volendo vedere l’animale completamente ristabilito, almeno nell’umore.
Si mise a fare meticolose ricerche su questo strano struzzo, riuscendo a scoprire che era originario della Polinesia.
Quest’informazione lo portò a convincersi dell’importanza di riportare l’animale nel suo ambiente naturale.
Partirono immediatamente e, dopo ore ed ore di viaggio, giunsero nelle magnifiche isole tropicali della Polinesia, dove si sistemarono in una piccola casa confortevole. Nel giardino, tra due palme, appesero un’amaca, dove si stendevano per gran parte del tempo. Lo struzzo non stava ancora molto bene e così si stesero a lungo assieme, abbracciati, aspettando che qualcosa accadesse. Arrivò la notte e lo struzzo ancora non riusciva a dormire per via dei pensieri che lo tormentavano. Decise di esplorare l’isola, usando per la prima volta le zampe, perché non poteva più volare. Scoprì delle risorse del suo corpo che non pensava d’avere e questo lo confortò molto.
Camminò per molte ore e, lungo il tragitto, conobbe tanti suoi simili, tra cui una struzzina a cui non importava che fosse senza un’ala e che avesse un colorito violaceo. Così lo presentò a tutti i suoi amici, invitandolo a stare in loro compagnia.
Questa libertà e la scoperta della possibilità di camminare lo fecero gradatamente tornare azzurro e lo portarono a cantare di nuovo. Ora era tornato ad essere la vera essenza di Willy.
Anonimo

Storia della strega bambina

Storia della strega bambina
In un mondo non molto diverso da quello che tutti conosciamo, viveva tanto tempo fa una bambina che stava per compiere nove anni. Per le streghe, compiere nove anni è un evento importante perché è l’età in cui le candidate streghe (che possono essere figlie a loro volta di altre streghe oppure essere un prodigio della natura) devono presentarsi al Gran Consiglio delle Streghe, dove viene conferito il titolo ufficiale, per poi intraprendere gli studi specializzati di stregologia.
Le ragazzine figlie di streghe dovevano portare anche il cappello magico, ereditato dalla madre. Sfortunatamente, la bimba protagonista di questa storia era rimasta orfana di madre in giovanissima età, senza sapere dove fosse finito il cappello che le spettava. L’unica cosa di cui era sicura, però, era il fatto di sapere d’essere una strega, quindi, raccolse tutto il suo coraggio e si presentò comunque al cospetto dell’austero consiglio.
Una volta davanti al gruppo di vecchie e autoritarie streghe, espose la sua situazione e, sebbene loro avessero tante altre candidate da valutare, decisero di concederle una possibilità: entro tre mesi avrebbe dovuto trovare in qualsiasi modo il cappello magico appartenuto alla madre, con cui poi poter affrontare una prova che se avesse superato, le avrebbe permesso di accedere agli studi ufficiali.
Una volta rincasata, decise di uscire per andare a fare una passeggiata nel bosco, per potersi schiarire le idee e pensare un programma sul da farsi. Continuando a camminare, s’imbattè in un serpente che non pareva essere pericoloso. Anzi, mentre riposava steso al sole, gli si sedette vicino e cominciò a parlargli. Il serpente si rivelò mansueto come le era sembrato, quindi cominciò confidarsi e a sfogarsi con lui, raccontandogli tutte le sue sventure e lamentandosi per quanto fosse sfortunata.
Grata per l’ascolto, la bimba accarezzò il rettile, che immediatamente si trasformò in un ragazzo. Spiegò di essere stato vittima di un crudele incantesimo, che si sarebbe sciolto solo a seguito di un gesto d’affetto. Per ringraziarla d’averlo liberato, il ragazzo promise di aiutare la bambina a ritrovare il cappello e di starle accanto in ogni difficoltà.
I due cominciarono a cercare ovunque il cappello e, ad un certo punto, furono attirati in una grotta da una voce suadente. Una volta entrati, trovarono inaspettatamente un fantasma, che sebbene in un primo momento li fece spaventare a morte, spiegò loro che lui era in possesso del cappello della madre della bambina, ma che avrebbe potuto restituirglielo solo se lei avesse rianimato la sua vecchia scopa magica, che ormai non volava più.
La ragazzina si fece prendere dallo sconforto perché non aveva la più pallida idea di come fare, ma il suo nuovo amico pensò bene che le scope erano originariamente fatte per spazzare i pavimenti. Suggerì, quindi, di pulire tutti i pavimenti più frequentati dalle streghe.
Quest’idea si rivelò geniale, perché dopo settimane e settimane di pulizie, la scopa riprese vita!! Presto volò dal fantasma della grotta, mentre la bambina e il ragazzo le correvano dietro. Appena giunti alla grotta, il fantasma mantenne la promessa, restituendo il magico cappello alla bambina, che subito lo portò al Gran Concilio delle streghe che le permisero di accedere agli studi di stregoneria, da lei tanto desiderati.
Anonimo

Lo strano paese dell'est e dell'ovest

Lo strano paese dell'est e dell'ovest
C’era una volta un paesino di montagna attraversato da un torrente. Sebbene quest’ultimo non avesse un letto molto ampio, era tanto importante da aver condizionato la costruzione delle abitazioni e dei quartieri: tutte le case erano a debita distanza dalle sponde e i quartieri si dividevano in quelli dell’est e quelli dell’ovest.
Per disposizione di un bizzarro governatore, i bambini al di sopra degli otto anni dovevano abitare nei quartieri dell’ovest, lontani dai genitori così da non crescere viziati e capricciosi.
I due quartieri erano collegati da un vecchio ponte di legno, ormai pericolante.
Nel quartiere dell’est vivevano tre bambini, nipoti di un grande mago che aveva lasciato loro in eredità un piccola bacchetta magica che però poteva essere usata solo tre volte nella vita in caso di estrema urgenza.
Dopo un incendio e una frana, rimaneva loro solo un’altra possibilità di usarla.
Purtroppo, un giorno i bambini vennero a sapere che la loro mamma era malata: niente di grave ma una febbre alta la costringeva a letto da alcune settimane.
Per fortuna, un bravo medico le aveva dato delle ottime essenze curative che la stavano facendo stare meglio, abbassandole la febbre. Nonostante ciò, continuava a sentirsi molto debole.
I bambini erano convinti dell’importanza di far visita alla loro mamma per riuscire a farla tornare in piena forma.
Per fare tutto questo era indispensabile attraversare il ponte pericolante che tutti esortavano a non attraversare, eccezion fatta per un uomo ambiguo che dall’altra estremità del ponte li invitava insistentemente a dirigersi verso di lui. Quest’individuo aveva, però, un’espressione piuttosto strana ed era evidente che non fosse animato da buone intenzioni.
I bambini pensarono bene che fosse importante trovare un’altra soluzione per attraversare il fiume.
Fortunatamente era inverno e venne un’abbondante nevicata che si rivelò provvidenziale, facendo ghiacciare tutto il torrente e la struttura del ponte.
Grazie alla neve e al ghiaccio tutto divenne più semplice: i bambini trovarono dei pattini e attraversarono il fiume, evitando così tutti gli ostacoli.
Una volta approdati all’altra sponda, però, incontrarono un brutto mostro che li terrorizzò con la sua espressione orripilante e le sue urla.
Uno dei tre bambini si ricordò dell’ultima possibilità che gli rimaneva di usare la bacchetta magica: pensò che in fondo non fosse giusto uccidere il mostro solo perché era brutto e decise di rendere invisibili sé stesso e i fratelli per poter magicamente scappare.
Il torrente, intanto, rimaneva ghiacciato e questo tornò utile ai bambini ancora una volta. Per arrivare nella zona più bassa del quartiere est, dove abitava la loro mamma, cominciarono a scivolarci sopra, giungendo velocemente ad uno stagno che non s’era ghiacciato. L’impatto con l’acqua li fece tornare immediatamente visibili.
Nello stesso stagno abitava una famigliola di ranocchi che, ascoltando i discorsi dei bambini, decise di aiutarli, facendoli salire in piccole zattere, costruite con le foglie più grandi di ninfee.
Queste barchette permisero loro di raggiungere l’altra sponda dello stagno, da cui era più semplice raggiungere la mamma, regalandole così la piena guarigione.
Anonimo

La nascita del sole

La nascita del sole
In un tempo lontano, lontano, l’universo era illuminato solo dalla Luna. Era sempre piena, tonda e luminosa, ventiquattro ore su ventiquattro. Tutto era rischiarato da una luce biancastra, pallida ma molto brillante, che creava un’atmosfera argentea ovunque.
Agli animali del bosco, però, questa luce cominciava a dare fastidio per la sua costanza ed intensità, che impediva loro di riposare. S’irritavano sempre più e il loro malcontento andava sempre più crescendo. Stanchi della situazione, si riunirono in un consiglio straordinario, al termine del quale pensarono di rivolgersi al dio dei venti, Eolo, perché desse loro una mano. Gl’illustrarono chiaramente il problema, descrivendo bene la loro stanchezza. Il dio, preoccupato per il loro grande malumore, convocò immediatamente la Luna, imponendogli d’indossare un suo mantello fatto di nuvole, che aveva sempre custodito gelosamente in un cassetto del suo comò. La Luna accettò volentieri l’ordine di Eolo e indossò immediatamente il mantello, rasserenando, così, anche gli animali.
Tornando a casa, la Luna incontrò una pietra infuocata che girava sconsolata nell’universo, afflitta da un grande senso di solitudine per essere l’unico corpo infuocato della sua galassia. La pietra pensava di colpire la Terra col suo corpo ardente, in modo d’incendiarla e non essere più sola.
Il dolore provato dalla pietra infuocata e la preoccupazione per quanto poteva accadere alla Terra e ai suoi abitanti, mossero a commozione la Luna che cominciò un pianto a dirotto, che durò sette giorni e sette notti. Le lacrime lunari bagnarono talmente tanto la pietra che la fecero spegnere completamente. Questo nuovo stato era un vero e proprio trauma per il corpo prima ardente, che cominciò ad avere intensi dolori e brividi.
La Luna provò pena per la pietra e decise di portarla nella sua casa, dove poteva curarla, facendo uso di garze medicamentose e soprattutto del mantello di Eolo che aveva anche la proprietà di portare la serenità nel cuore. La convalescenza della pietra fu piuttosto lunga ma ella fu in grado di fare tesoro del tempo che passava: si mise a studiare il cielo, le stelle, gli astri ed il loro movimento. La Terra continuava a destare un grande interesse in lei, portandola a studiare anche il comportamento dei suoi abitanti.
Col tempo, la pietra divenne così saggia e preparata nelle sue conoscenze, che la Luna pensò di affidarle un ruolo importantissimo: il giorno in cui le tolse definitivamente le bende, le disse che sarebbe dovuta andare ad abitare dall’altra parte della terra, con l’obiettivo di sorvegliarne gli abitanti, riscaldandoli col suo calore e rischiarandoli con la sua luce per la metà del giorno.
Al momento della partenza, la Luna baciò la fronte della pietra, che dall’emozione s’incendiò nuovamente: dando origine alla nascita del Sole.
Anonimo

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Maila e il misterioso serpente

Maila e il misterioso serpente
C’era una volta, in una lontana terra esotica, uno splendido castello incantato, immerso in un enorme giardino dai mille fiori e piante, colorati e profumati.
In questa enorme tenuta, nacque Maila, bambina dall’intelligenza brillante e bellezza disarmante.
Lo splendore dei suoi occhi neri e dei capelli castani divennero leggendari. La sua carnagione ambrata divenne l’invidia di molte donne del paese.
Purtroppo Maila divenne presto orfana, rimanendo l’unica abitante del castello, assieme ai servitori.
La sua intelligenza e bellezza la portarono ad essere amata e stimata da tutti.
Nel paese viveva anche una vecchia e brutta strega, che moriva d’invidia pensando alla ragazza e all’affetto che la circondava. Così, un giorno, in preda ad un attacco d’ira, s’introdusse furtivamente nel castello, trasformando Maila in un orribile serpente.
La nuova pelle della povera principessa era irriconoscibile: divenuta squamosa e viscida, fece scappare tutti i servitori. La ragazza-serpente rimase l’unica abitante del castello.
Nessuno aveva capito che il serpente in realtà fosse la principessa, un tempo tanto amata. Anzi, ora che si trovava imprigionata nel corpo del fastidioso serpente, venne da tutti allontanata per la sua bruttezza.
Più il tempo passava, più s’inventavano leggende sul misterioso serpente, alimentate dalla cattiveria della strega che andava dicendo fosse anche molto cattivo.
Queste dicerie correvano velocemente di paese in paese e presto arrivarono anche alle orecchie di un uomo che decise di eliminare il temuto serpente, liberando tutti dalla paura.
Intanto, la principessa rimaneva sempre più sola e si ritirò nel giardino del castello, dove almeno trovava il conforto del profumo e dei colori dei fiori.
Il giardino era molto grande e, con l’allontanamento degli uomini, cominciava ad essere popolato da altri animali, addirittura da un orso e da un lupo.
Quando l’uomo decise di intraprendere questa spedizione, per eliminare il serpente pensò di dotarsi di una pietra infuocata e potentissima, che gli sarebbe servita per colpire l’animale a morte.
Dopo aver percorso miglia e miglia, giunse al castello armato della pietra infiammata, ma appena varcò le mura della tenuta, una pioggia miracolosa ne spense il fuoco, annullandone così tutti i poteri.
L’uomo non si arrese e decise d’addentrarsi ulteriormente nel giardino, dove improvvisamente incontrò l’orso. Inizialmente, l’uomo si spaventò a morte ma subito l’orso manifestò il suo carattere mansueto. I due decisero di allearsi per uccidere l’orrida creatura.
In un angolo remoto, i due trovarono un vecchio fucile ancora carico che sarebbe potuto servire al posto della pietra.
Il lupo, invece, aveva un carattere molto più introverso e solitario che lo portò a non allearsi, decidendo d’uccidere il serpente da solo.
L’uomo e l’orso, avvicinandosi al castello, incontrarono il lupo e, spaventati dal suo aspetto minaccioso, gli spararono, ferendolo a morte.
Dopo il tremendo fragore dello sparo, nel giardino calò un silenzio irreale, interrotto solo da una splendida melodia che proveniva da un cespuglio lontano.
I due decisero di avvicinarsi e, seguendo il suono, scorsero il serpente intento a cantare con voce soave che niente aveva a vedere col tanto temuto rettile. Sbalorditi dalla visione, rimasero atterriti e si scoprirono incapaci di uccidere una creatura tanto brutta nell’aspetto ma tanto incantevole nella voce. Lo sguardo dell’uomo, dell’orso e del serpente s’incrociarono e subito i primi due capirono che nel corpo del serpente doveva essere imprigionato quello di un’altra creatura.
L’orso si ricordò della strega del paese e subito pensò che potesse essere stata lei ad originare qualche maleficio. All’uomo venne istintivo fare un gesto d’affetto verso il serpente dalla voce e dallo sguardo incantevoli. Con estrema delicatezza, gli baciò la fronte e, come per incanto, dalla pelle viscida strisciò fuori la splendida principessa.
Con l‘annullamento dell’incantesimo, la strega si trovò improvvisamente pietrificata. Imprigionata nel corpo di una statua, venne buttata a terra da una misteriosa e potentissima raffica di vento, che la fece andare in mille pezzi.
Tra l’uomo e Maila sbocciò immediatamente l’amore, che li fece convolare a nozze e vivere felici e contenti.
Anonimo

Magico Uovo di Rana

Magico Uovo di Rana
In un tempo lontano, quando tutto poteva accadere, vicino ad un piccolo paese si trovava un bosco, molto fitto d’alberi d’ogni specie e popolato da tanti animaletti selvatici: uccellini, scoiattolini, cerbiatti, coniglietti e chi più ne ha, più ne metta.
In una radura pianeggiante, era stata costruita una casetta di legno, non molto grande ma ordinata ed accogliente. Era abitata da una donna molto bella, che dicevano fosse una strega perché abitava in un posto così isolato, senza marito né figli. Solo per questo motivo era da tutti evitata e considerata male: nessuno le faceva mai visita o le offriva aiuto.
Lei però s’arrangiava in tutto e per tutto: coltivava un piccolo orto con molte verdure, allevava una capretta e una mucca per il latte con cui poi fare anche del formaggio, possedeva un pollaio per le uova fresche e coltivava anche qualche albero e pianta da frutto.
Nei pressi della piccola abitazione si trovava uno stagno, popolato soprattutto da rane. Tra queste c’era anche una famigliola, costituita da mamma rana, papà rana da cui era nato un ranocchietto.
Quando il piccolo crebbe un po’, i tre decisero di uscire dallo stagno e di andare a vedere la casa, che per lungo tempo avevano osservato dall’acqua.
Si avvicinarono al punto di riuscire ad entrare attraverso una crepa della parete, che la donna non aveva ancora finito di riparare.
Una volta entrate, le rane scoprirono che la donna conviveva con un serpente, che lei accudiva come un figlio.
Mamma, papà e figlio rana furono colpiti da questa strana convivenza perché sapevano che gli uomini erano infastiditi dalla pelle viscida e verdognola dei rettili.
Era evidente che questa donna fosse diversa dai suoi simili e pensarono che quanto andavano dicendo i paesani non fossero altro che dicerie.
Rassicurati da quanto avevano visto, pensarono addirittura di stringere amicizia con lei.
Così fù. Ben presto scoprirono che non era affatto una strega, ma solo una donna molto sfortunata, che aveva deciso di vivere in solitudine per evitare le cattiverie e gli sgarbi dei compaesani. Le si avvicinarono e lei non li respinse. Cominciarono anche a parlarle, venendo a sapere che pochi anni prima una vera strega, ormai morta di vecchiaia alla veneranda età di millecinquecento anni, aveva trasformato suo figlio in un serpente.
Questo spiegava l’atteggiamento estremamente affettuoso tra i due: capirono perché lei lavava e profumava il serpente ogni sera prima di coricarsi, lo nutriva con i migliori alimenti e ne custodiva con cura le pelli che cambiava periodicamente.
Mamma rana, conoscendo l’intensità dell’amore per un figlio, rimase profondamente toccata dal racconto. Pensò che donare parte della sua capacità di essere madre potesse porre rimedio al maleficio della strega. Mamma rana fece un uovo e lo donò alla madre del bambino-serpente, invitandola a farglielo ingoiare alla mezzanotte di una notte di luna piena. La donna fece i conti e la verificò che questa sarebbe venuta dopo tre giorni. Quindi pensò bene di lavare e preparare la pelle del serpente, idratandola con olii e balsami, in modo che, nel caso in cui il corpo del bambino fosse sguisciato da quello del serpente, il processo sarebbe stato più semplice, essendo tutto più ammorbidito.
Dopo tre giorni di bagni all’amido, spugnature con essenze emollienti e massaggi con olio d’oliva, alla mezzanotte la donna fece ingoiare l’uovo di rana al serpente. Tutti si misero ad aspettare con la speranza che qualcosa accadesse spontaneamente, ma l’attesa venne delusa: il serpente continuava a rimanere tale.
Così, col cuore gonfio di lacrime, la madre ripose il serpente nel suo giaciglio, pronta a continuare ad amarlo come sempre.
Nessuno aveva pensato che prima che il nutrimento dell’uovo entrasse in circolo nel corpo del serpente era necessario che costui lo digerisse. Tutti andarono a letto con l’amaro nel cuore e con una profonda tristezza.
Ma il mattino dopo, al risveglio, la donna andò a vedere il suo serpente ma ne trovò solo la pelle: al suo fianco dormiva il suo adorato bambino che indossava ancora i vestiti del giorno in cui venne trasformato in rettile.
Al colmo della felicità, abbracciò immediatamente il suo piccolo che nel frattempo si era svegliato e che profumava dei balsami che aveva applicato giorni prima alla pelle di serpente.
I due si abbracciarono e coccolarono fino a sera inoltrata e decisero di rimanere a vivere nella casetta del bosco con le amiche rane, lontani dalle persone che a lungo li avevano disprezzati e derisi.
Anonimo

Il viandante e il drago nero di Norvegia

Il viandante e il drago nero di Norvegia
Un tempo nella città di Catapecchia un viandante con il suo fedele bastone andava raccontando storie ai piccoli bambini della città.
Raccontava storie della sua vita passata perché egli un tempo era stato un cacciatore di draghi. I bambini lo ascoltavano sempre meravigliati e increduli.
Proprio mentre stava raccontando la sua impresa più famosa riguardante la cattura di un drago nero gigante, cadde dal cielo un uovo molto grande e lui disse ai ragazzini: “Non ci può essere altra spiegazione: questo è un uovo di un drago nero di Norvegia! Dovete sapere che i draghi neri di Norvegia hanno la caratteristica di essere molto pericolosi per la loro voracità: sono sempre affamati di carne umana. Inoltre hanno un aspetto ripugnante”.
I bambini a questa notizia si impaurirono moltissimo, ma rimasero lì affascinati dalle storie del vecchio. Così lui finì di raccontare la sua storia, prese in custodia l’uovo e riprese il suo viaggio. Mentre stava camminando per un fitto bosco l’uovo cominciò a vibrare, segno che era vicino il momento della schiusa. Il viandante, stanco del lungo cammino, posò il suo bastone e si stese a riposare. Senza accorgersene si addormentò e quando si risvegliò, a fianco a lui c’era l’uovo rotto in mille pezzi. Preoccupato tornò al villaggio a vedere se per caso il cucciolo di drago aveva deciso di mettere la sua casa lì nella città. Si mise alla disperata ricerca di quell’essere spaventoso e alla fine lo trovò sopra il campanile. Era già diventato enorme nonostante fosse nato solo da qualche ora e sputava fiamme in tutte le direzioni.
Gli abitanti di quel luogo si erano rifugiati nelle proprie case spaventatissimi.
Il viandante salì le scale del campanile per raggiungere il drago e calmarlo. Quando lo raggiunse il drago ruggì rabbiosamente e non accennava a placare la sua rabbia. Il viandante non si arrese anche se le cose si stavano mettendo davvero male e decise allora di usare le sue tecniche di esperto cacciatore di draghi. Però sapeva bene che per riuscire nella sua impresa era necessario estrarre dal cuore l’artiglio del male che di solito cresce nei cuori dei draghi neri di Norvegia e ha la caratteristica di renderli i più aggressivi draghi esistenti sulla faccia della terra. Allora evocò un incantesimo che aprì la pancia del drago, cercò il cuore e con un veloce gesto strappò l’artiglio. Poi gli richiuse la pancia e la bestia diventò completamente innocua, anzi leccò dolcemente il viandante in segno di ringraziamento e gratitudine e si mise la zampa sul cuore per dire che ora gli apparteneva.
Gli abitanti del villaggio uscirono a festeggiare, brindando con birra e idromele.
Il viandante salì in groppa al drago e insieme continuarono l’interminabile viaggio in cerca di nuove avventure.
Casper

Anima mia

Perché te ne vai anima mia
Non senti il richiamo alla vita?
Tutto ti sorride intorno,
I prati coperti di fiori, i bimbi, le rondini in volo.

Aggrappati a me, stringimi forte
Voglio con te sfidar la sorte,
No, non sarai mai sola,
Nel dolor c’è chi ti aiuta.

Dona amore, pace, speranza, di un domani.
Non lasciar mai queste mani,
Le mani di chi ti ha tanto amato
E nella vita con te ha sofferto.

Per chiedere solo un po’ di amore,
Anima mia, stringiti al mio cuore,
Come una rondine vorrei spiccare il volo.
No, non vorrei restare solo.

Ma sopra le nuvole volare leggero,
Vedere il mondo con te, amore vero.
Scomparire lontano, anima mia,
Stringi la mia mano, per non restare soli.


Franco S.

Pensiero d'amore

San Camillo oasi di pace e d’amore,
Con tanti fiori di vivo colore.
Con la natura che Dio ha creato,
Convive ogni essere sano e ammalato.
Ci son persone di ogni ceto,
Ospiti nobili di un soave aspetto.
Ogni momento del giorno,
C’è l’animatrice che vi sta intorno.
Sempre pronta con disponibilità,
Per alcune ore di serenità.
È lei con il suo sorriso,
Che vi dona un po’ di paradiso.
Di momenti allegri e gioiosi,
Con battute e scherzi spiritosi.
È tanto bella questa creatura,
Che per voi si da premura.
Vi vorrebbe tutti abbracciare,
Per un momento di soave amore.
E questa gioia che lei dà,
È il suo cuore, la sua bontà.


Franco S.

Ammalati (Campioni)

Quanto impegno e quanto slancio,
Si dan tutti un gran da fare, per curare e guarire
Gli ammalati, si fa per dire!
Sembrano degli sportivi con la tutta da campioni,
Fanno corse e acrobazie su e giù per le corsie,
Ma i medici curanti che son sempre vigilanti,
Danno a ognuno l’occasione diventar un gran campione.
C’è qualcuno che va piano che di fretta non ne ha.
Passo, passo va lontano per guardare un po’ il mar.
C’è chi rimane indietro e solo
In una stanza appartato,
Con i medici vicino per vedere il risultato.
Quella diagnosi si sa può ridare serenità.
Di speranza c’è né tanta,
Di guarire e lasciare la stanza,
E dar sfogo a quella gioia,
Di aver vinto una gara, della vita tanto cara.

Franco S.

Ricordo d'un tempo passato

Da tempo sei provata
Su quel letto ammalata,
Cercando di guarire
Da quel male che ti fa soffrire.
La notte è una tortura
Il giorno una paura,
Quel male insistente
Che non ti fa indifferente.
Per chi ti chiede di pregare
Per la grazia di saper amare,
Con l’amore che ti tiene per mano
Il pensiero vola lontano.
E puoi viaggiare leggera
Con i sogni ogni sera,
Vedi mari, boschi e prati
E monti da te scalati.
Nei tuoi sogni non son svaniti
Anche se di tempo né è trascorso.
Camminavi con me nel bosco
Raccoglievi funghi e fiori.
Donavi Amore con lo sguardo
Quando in alto ti trovavi
Vicino al sole t’illuminavi,
Con il frusciar del vento
Che non puoi dimenticar quel sentimento.

Franco S.

martedì 1 giugno 2010

Una mano ti sfiora

Con lo sguardo assente,
la bocca aperta,
la testa piegata
verso sinistra,
le mani legate,
sei seduto
in un angolo.

Ti passano vicino ma,
non ti degnano un saluto,
ti passano vicino ma,
non ti vedono:
tu hai la bocca aperta.

Una mano ti sfiora e
accarezza lentamente
i capelli;
il tuo sguardo assente
diventa presente.

Lasci cadere la palla,
che ti tiene aperta la mano e
lentamente muovi gli occhi
verso quella mano che
ti ha toccato.

E’ un grazie
il tuo movimento:
hai detto che sei vivo,
si! Vivo, vivo e
sogni un mondo che
sappia accogliere.

Lucio Miotto

Tom e il vecchio

Tom si guardava le mani, erano mani belle, agili e nervose, ma il lavoro nei campi della Luisiana vi aveva già impresso linee dure e nette. Si ricordava il suo arrivo a Napoli, gli scugnizzi, il frastuono, il vino bevuto in una trattoria e poi l’andare a letto con una donna, una donna qualsiasi. Aveva poi conosciuto Lisa, una ragazza friulana: quelle sue mani, nere come il carbone, sapevano scuotere sin nel profondo delle viscere la giovane donna. Tom di quella ragazza diciottenne si era innamorato a prima vista, da quando l’aveva incontrata nella camera d’affitto, vicino alla Base Aerea.

Troppo vicina, pensò Tom. Accese una sigaretta: la divisa blu di sergente dell’Air Force giaceva a sghimbescio sulla sedia. Le sue mani nere,il suo corpo nero piacevano a Lisa, avevano il profumo selvatico del bosco, gli aveva mormorato un giorno nell’orecchio. Il suo odore di nero! Tom lo sapeva... Infatti il vecchio non ci stava. Tom lo aveva incontrato scendendo dalla macchina, il giorno in cui era venuto a portare la sua roba.

Il vecchio usciva da una stalla, aveva un paio di stivali sporchi ed un buffo cappello, con una strana penna su un lato. Tom aveva sentito subito l’odore inconfondibile del letame, era l’odore di suo padre. Suo padre! Uno degli ultimi laggiù a tenere ancora vacche nella stalla, ma presto sarebbe scomparso, come tutto quel mondo che lui odiava, i bianchi, i neri, l’apartheid. Ed ora quel vecchio italiano, che puzzava di letame, non aveva potuto fare a meno di storcere il naso quando gli aveva stretto la mano... Il suo odore di nero!

Il vecchio aveva mormorato una bestemmia , era stato più forte di lui, sua figlia lo aveva avvertito, l’odore di pelle di nero era inconfondibile, ma i dollari non puzzavano e loro avevano bisogno di soldi. Eppure quel nero gli era simpatico, lui se ne fregava della razza, aveva visto cose ben più terribili nel gelo della Russia; lo sentiva dentro, forse erano gli occhi del nero, erano sinceri, forse erano i calli sulle mani nere, erano eguali ai suoi, parlavano la voce dei campi. 


Era scesa la sera, un sole d’oro tramontava oltre i boschi del Cansiglio. Il vecchio riposava fuori della stalla, guardava Tom, il volto nero ormai confuso con le ombre della sera. Tom appoggiato allo stipite della porta della sua camera, fumava una sigaretta; il disco rosso del sole scomparve oltre la linea dei monti. La nostalgia gli serrò la gola, si ricordò della piccola fisarmonica, frugò fra la sua roba, la trovò, la portò alla bocca, trasse un respiro profondo e le note struggenti dei canti neri di suo padre, di suo nonno, appena accennate, salirono leggere oltre il fumo della sigaretta, si avvolsero nell’aria fresca del cortile, giunsero al vecchio.

Tom scorse il vecchio alzarsi, sparire per un attimo nella stalla, ritornare con un fodero consunto dall’uso. I tasti bianchi di una fisarmonica luccicarono nell’ombra, le dita del vecchio scorsero agili e lievi, sulla tastiera, descrissero serene le note di una Villotta friulana Insieme le note salirono verso l’alto, non nere non bianche, ma del colore del cielo.


Gianfranco Scilipoti

Il centurione Giulio

Correva l’anno 61 D.C. e nelle campagne intorno a Roma erano i giorni in cui il vento di scirocco portava il primo tiepido sole e sbocciavano la malva ed il tarassaco. Il centurione Giulio si sedette su una pietra nera di lava e si tolse l’elmo. Fatto di ruvido cuoio con borchie in bronzo, portava come segno della sua autorità, una piccola lupa sulla fibbia d’argento che stringeva due lacci pure in cuoio . Aveva dato un ordine secco ed i suoi uomini si erano disposti ad un breve riposo – era l’ora in cui il sole era più alto nel cielo – tenendo d’occhio i prigionieri.. Ormai così vicini alla meta sarebbe stato il colmo che qualcuno gli sfuggisse proprio ora.
Erano partiti da Cesarea sei mesi prima, ma appena lasciate le coste sicure di Creta, la loro nave era incappata in una tremenda tempesta e solo grazie alla Dea Fortuna erano riusciti ad approdare sulle spiagge di un’isola chiamata Malta. Accanto a lui un prigioniero attendeva in piedi un suo cenno per sedersi.
Ma quell’uomo in piedi non mostrava alcun segno di sottomissione : il volto magro aveva i lineamenti del Giudeo, ma gli occhi vibravano di una luce intensa e tutta la sua persona emanava una autorità, che il centurione Giulio suo malgrado aveva finito per riconoscere. Quell’uomo sembrava conoscere tutto : durante la tempesta si era mostrato coraggioso ed aveva incitato i marinai. Aveva guarito ferite mortali, conosceva il greco ed il latino.
Si era dichiarato « cittadino romano » ad un processo in Cesarea si era appellato a Cesare. Ma quell’uomo aveva un ben più straordinario potere, quello di piegare il cuore degli uomini. Giulio si chinò, con una ciotola raccolse un po’d’acqua fresca e la porse al prigioniero. Erano in una piccola radura, erano scesi verso un fosso, lasciando l’Ardeatina quando ormai si vedevano lontane le colonne del Forum Julii. Da Pozzuoli avevano seguito la via Appia, ma vicino a Roma erano troppi i carri dei patrizi che la intasavano. Lui conosceva quella sorgente vicina alla villa di un ricco patrizio, Nerva, che possedeva anche degli ampi ed ariosi granai e vi sostava volentieri prima di entrare in Roma Fece cenno al prigioniero di sedersi accanto a lui, i suoi soldati e gli altri prigionieri erano sparsi all’ombra degli eucalipti tra i giunchi e mangiavano il loro pasto frugale di formaggio caprino e olive. Giulio chiese a Paolo :
« Ma questo tuo Signore e Dio, che era un uomo ed è morto su una croce, come si chiamava…Gesù il Nazareno, parlami ancora di lui. Mi hai detto che era potente, compiva cose impossibili, calmava le acque del mare e, tu dici, è salito in cielo. Non capisco, a volte mi sembri un po’ pazzo… »
Paolo lo guardò e nei suoi occhi brillava la Luce : prese un pezzo di pane dalla sua bisaccia, lo spezzò e ne porse al Centurione Giulio.
« Capirai , Giulio, capirai … ». Sette anni dopo la testa di Paolo cadeva alle Tre Fontane.
Duemila anni dopo le ruspe che scavavano le fondamenta dei palazzi di Roma 70 un giorno scopersero un mosaico di una antica villa pressappoco dove oggi ci sono le vie Ascari, e Consolini ,con la scritta - et dux julius- ed un pezzo di pane spezzato in due parti. La stessa notte il mosaico scompariva per mano di ignoti. Un tratto della Ardeatina resiste nel cortile della Annunziatella, mentre il viottolo che scendeva dietro la nostra chiesetta, percorso duemila anni prima dal Centurione Giulio e da Paolo di Tarso è scomparso come anche la sorgente, inghiottiti dalle ruspe e dal cemento.

Ma se tu vai nelle ore quiete di un pomeriggio d’estate, nella penombra della vecchia chiesa della Nunziatella, vedrai una luce brillare sull’altare. E’ la stessa luce, la Luce dello Spirito che un giorno lontano Paolo accese nel cuore del Centurione Giulio.
Scritto a Geel, in Belgio il 19 Marzo del ‘97.


Gianfranco Scilipoti

Riuscire a convivere con la sclerosi multipla

Io ero una persona molto positiva e sempre attiva. Mi bastava guardare qualsiasi mestiere per capire come si fa, di questo andavo fiera.
Un lunedì di Pasqua 1989 non riuscii più ad alzarmi, da allora la mia vita cambiò, tra poussé, ospedale e cortisone, la accettai comunque. Così a poco a poco, eliminai tutte quelle cose che mi piacevano tanto, cioè le gite in montagna e le arrampicate che mi portavano sulla cima per ammirare meravigliosi panorami, assaporando i vari colori di Madre Natura che mi portavano a dire: “grazie Signore per queste meraviglie!”
Rinunciai ad andare in bicicletta da corsa: ricordo un giorno mentre eravamo di passaggio in un paese, c’era un traguardo e anche della gente, io ero davanti a mio marito e loro che urlavano “vai…vai…sei prima!” che spasso!
Deposi gli sci da fondo e da discesa, ma la rinuncia più grossa fu di smettere di suonare la fisarmonica.
Nonostante tutto rimase il mio ottimismo. Se non altro queste cose io le ho fatte!
Quello che più fa male sono le frustrazioni dovute al continuo scontro con le barriere architettoniche, l’indifferenza di certa gente che parcheggia l’auto nei luoghi a noi riservati e se vengono ripresi hanno anche la faccia tosta di risponderti: “Oh! Mi scusi non l’ho visto”.
Tanti atteggiamenti ti fanno sentire diversa! Te lo fanno notare che sei diversa.
Allora l’unico modo è di combattere e farsi sentire: ci siamo anche noi!
Sono passati ormai 20 anni da quando mi è stata diagnosticata la malattia e ho imparato ad avere più pazienza e serenità per riuscire a convivere con la sclerosi multipla.
Io comunque mi sento una donna fortunata, ho un marito che mi segue e mi vuole bene scrivendomi delle poesie quando sono in ospedale.


Naighi

Cosa mi resta

Immaginavo una
cosa diversa,
invece ho trovato
tutto più lontano
da me,
dai miei sogni,
dal mio mondo.

Non è vero
ciò che dicono;
la realtà è diversa:
due mondi
si scontrano.

Non c’è spazio
per me:
non conto più,
i miei sogni
sono abortiti.

Cosa mi resta?

L’unica cosa che
mi rimane è
la malattia.

Lucio Miotto

Mi sento estraneo

E’ tutto come prima:
guardo e non è
cambiato niente.

C’è sempre il quadro,
i disegni sono sempre là,
la sveglia c’è:
non manca niente.

Però, in realtà...

C’è qualcosa
che non va,
che non torna:
sei cambiata tu,
ecco perché
mi sento estraneo.

Lucio Miotto

Le foglie cadono

Sdraiato, obbligato a
stare fermo sento
che la vita va via.

I giorni passano
ma è tutto come
il primo giorno.

Le foglie cadono,
arriva l’inverno ma,
per me è sempre
primavera:
non arriva mai
il tempo
della maturazione.

La speranza,
ogni giorno,
si affievolisce e
arriva l’autunno,
cadono le foglie,
l’erba diventa secca.

Lucio Miotto

In gita al lago

Da quando mi sono ammalata ho cercato di non pensare alla mia malattia e di buttarla dentro ad un cestino.

La malattia è difficile da accettare. Io camminavo con una stampella ed ero costretta a non stare molto in piedi. Adesso che sono su una carrozzina è ancora peggio. Le persone che stanno intorno a me all’inizio sono gentili, ma io mi accorgo che lo fanno per farmi un piacere e non perché lo sentono veramente. Trovo che addirittura mi evitino. Così mi sento un peso morto.

Da quando ho conosciuto il mio compagno mi sembra di essere rinata. È ammalato anche lui, ma mi aiuta il più possibile.
Io vorrei ricominciare a camminare anche con il deambulatore, vorrei tornare come prima. Ma se questo non fosse possibile vorrei essere accettata per come sono. Io non sono solo una persona che non cammina, io sono una persona estroversa, gioiosa, dolce e serena e molto luminosa ma sono anche fragile e tanto sensibile.

L’anno scorso ero in gita al lago con il mio compagno e abbiamo fatto una foto. Io gli ho detto che volevo alzarmi in piedi e lui mi ha risposto: “Io ti ho conosciuta in carrozzina e facciamo la foto così”. Questo mi ha tirato su il morale. Ma lui è l’unico che mi è stato vicino e mi ha portato in giro per il mio paese.

La malattia mi ha permesso di vedere meglio dentro le persone, d’altra parte però vorrei che anche le altre persone guardassero dentro di me... nonostante la malattia.

Pokemon 69

Un punto indica la meta

La violenza
verbale schiaccia
il pensiero.

Una linea allora,
delimita il tuo
spazio.

Una curva,
segna la
tua forza.

Un punto,
indica
la tua meta.

Lucio Miotto

I O.S.S.

Qua al S.Camillo go cognosudo i O.S.S.
Chi sei i O.S.S.?
No..No..Noi xe i O.S.S. de mort !
I O.S.S. i xe tosi e tose co na divisa bianca, so a scoeadura i ga un bordin asuro e sol petto un cerchietto co na croseta rossa.

I xe qua par daghe un agiuto ae persone che ga vudo qualche scarogna daea vita.
Lori i te svegia aea mattina, i te ava, i te cambia, i te sburata a destra e a sinistra i xe abituai a tutto, e po col soevador i te porta so a luna, i te fa girar megio dea giostra a cadene.
I te mette in carosa e te si pronto.

El so avoro continua: letti, coasion, cusina, parché a meso dì tutti i sie servii.
Xe un lavoro duro ma i xe anca sempre disposti a scambiar un soriso e na paroea simpatica.
Par noialtri poveri pasienti, la xe na giornata diversa, cussì no pensemo tanto ae nostre sfortune.

GRAZIE

Betty Boop

Ippoterapia


Al San Camillo del Lido di Venezia c’è un capannone, dove viene praticata l’ippoterapia. Ci sono tre cavalli, si chiamano Ciuffetta, Luna e Bianca. Luna è la figlia di Ciuffetta, lei non viene cavalcata dai pazienti, al contrario delle altre due. Io ho cavalcato con tutte due ma quella con cui mi trovo meglio è Ciuffetta. È una cavalla color marrone con una bella coda e una criniera folta color beige. Bianca è un po’ più alta e magra di colore bianco. Luna è una bella cavalla dello stesso colore della madre con la criniera scura.




La prima esperienza d’ippoterapia fu emozionante! Non avrei mai pensato che un giorno sarei andata ancora a cavallo.
Quel giorno mi ricordai di quando ero bambina e i miei genitori mi portarono al lunapark: c’èra un recinto con dentro un cavallo e i bambini potevano montarlo come fosse una giostra. Mi misero sull’animale e… non vi dico che sensazione! Andava al trotto, e op, e op, mi faceva saltare, mi sembrava di volare e avevo paura di cadere.




Quando ho visto Ciuffetta e dovevo cavalcarla ero nel dubbio e pensavo: “chissà se anche questa mi farà saltare…”. Invece, dopo i primi passi dell’animale iniziai subito a prendere confidenza e sicurezza. Che bello! Mi immaginavo di essere un’ amazzone!




Oltre agli esercizi d’ippoterapia, i terapisti mi hanno insegnato a guidare il cavallo e a non avere timore. Al termine dei cicli d’ippoterapia mi sentivo migliore: più sicura e avevo giovamento nell’equilibrio. Ricordo che la prima volta che ho cavalcato ho portato una mela per ricompensa al cavallo, ma avevo paura di essere morsa con quei dentoni e non mi fidavo a dargliela. Il fisioterapista mi rassicurò e mi disse: “Non ti devi preoccupare, non ti morde!” Con mia meraviglia, il cavallo prese la mela con le labbra senza quasi toccarmi le mani. La sensazione che provai era nuova, mi dava tranquillità e desiderio di conoscere meglio quell’animale meraviglioso.




Ogni anno, quando ritornavo al San Camillo per fare riabilitazione, la mia grande gioia era fare ippoterapia.
Purtroppo sono più di quattro anni che non la faccio più, non so se dipende dal fatto che la malattia è peggiorata tanto che ora cammino a stento. Ad ogni ricovero vedo le mie compagne di stanza che vanno a fare ippoterapia e io provo un po’ di invidia e di nostalgia. Tuttavia quando disegno i cavalli, sogno ad occhi aperti di cavalcare e di essere un’ amazzone.


Naighi

Una mano ti sfiora

Con lo sguardo assente,
la bocca aperta,
la testa piegata
verso sinistra,
le mani legate,
sei seduto
in un angolo.

Ti passano vicino ma,
non ti degnano un saluto,
ti passano vicino ma,
non ti vedono:
tu hai la bocca aperta.

Una mano ti sfiora e
accarezza lentamente
i capelli;
il tuo sguardo assente
diventa presente.

Lasci cadere la palla,
che ti tiene aperta la mano e
lentamente muovi gli occhi
verso quella mano che
ti ha toccato.

E’ un grazie
il tuo movimento:
hai detto che sei vivo,
si! Vivo, vivo e
sogni un mondo che
sappia accogliere.

Lucio Miotto