sabato 26 marzo 2011

Fatti capire e capisciti

Fatti capire se non parli... metti quasi paura. Entri di diritto e  anche per dovere nella “categoria del dubbio” se non hai la fortuna di incappare in persone che si sforzano di scavalcare il muro di una bocca chiusa che se si apre dice al massimo “A” con variazioni sul tema “AAA” e l’aggravante di un corpo sbilenco e due straordinari pugnetti, niente che aiuta a far capire che “tutto sommato ci sei”. Se non un occhio vivo indice di freschezza come dal pescivendolo, con la fortunata differenza che tu dopo tre giorni non puzzi.

Molti l’hanno capito ma quando mi trovo di fronte “i pochi” me ne dimentico. In principio annaspavo alla ricerca di un metodo di comunicazione alternativo, fatto di sguardi, indicazioni, e con la  speranza che di là ci fosse sovrabbondanza d’intuito. Ora a distanza di anni non mi preoccupo, tanto si arriva comunque al dunque, indipendentemente da come mi abbia classificato il mio interlocutore. Sapessero certe persone che neuroni acrobati che mi ritrovo, il mio cervello si è specializzato in salti mortali e capriole per disincastrarsi dai luoghi comuni e se, per diverso tempo, ho imparato molti nomi e date a memoria, per essere sempre pronta a rispondere e a dimostrare che ero identica a qualsiasi bipede deambulante, ora non imparo a memoria anzi, dimentico automaticamente il nome di chi mi si presenta. Mi sono presa qualche piccola libertà.

E così quando l’interruttore del mio cervello ha ripreso lo stato “on” ho trovato occhi fissi ed espressioni dubbiose oppure li sentivo proprio addosso. Non mi sono abituata a vedermi “osservare  accuratamente“ ma con il tempo è diventato routine. Nel senso che il desiderio di scavare un buco nel pavimento non ce l’ho più. E poi non ci si guarda più in faccia, ho anche cambiato altezza, e il problema si è risolto gradualmente da sé.

L’amicizia di tanta gente ha rimediato ma non cancellato il passato. L’espressione ”Il passato è passato” purtroppo io non l’ho mai tenuta in considerazione, è la malattia più grave. E invece di guardare avanti mi sono corrosa. Ne è passato di antispastico nel mio corpo da quando una dottoressa graziosa per testare le mie facoltà cognitive mi faceva domande sulla persona che avevo di fronte come se non la riconoscessi, dandomi le diverse risposte del compito a quiz e indispettendosi vigorosamente per la mia risata. Una risposta, già decisa, era nascosta fra le righe: gli albori dello stato di insicurezza velata che tempo dopo avrebbe messo radici diventando decisamente ingombrante. Quando le figure che stimi anziché parlarti razionalmente affinché tu possa affrontare una vita alternativa, ti trasformano in una diagnosi grave, permanente, ti segnano, se non ti dici “okay ricomincio da qui”.

Intanto il tuo corpo non fa più rumore. Nessuno lo sa ma i gesti, le azioni, fanno rumore e la voce rimbomba, quando non c’è nessuna delle due, se non si è in un posto affollato si vive un fastidioso silenzio. Terreno fertile per l’insicurezza. Dopo un po’ che tanti o pochi dubitano di te anche tu lo fai. La cosa bella è che non lo fai in maniera continua. A momenti sbocci in prestazioni superlative poi rientri frettolosamente nel circolo delle domande a te stessa, domande di cui sai già la risposta, sì perché la parola d’ordine è guardare avanti e fare una cosa alla volta. Ma è una risposta che fa bella mostra in vetrina. Ti viene in mente solo quando vuoi esprimere saggezza, mettere in pratica è tutta un’altra cosa.

Ovviamente i problemi posso risolverli solo io, ma mi sfugge il perché ho dovuto attendere tanti anni di vita vissuta per capire che sono immersa nel disordine totale, dalle emozioni alle percezioni. Niente di quello che entra, esce o staziona in me ha il giusto peso. Il pianto è senza fine, la gioia è pianto... lo squilibrio delle emozioni è frustrazione. Ci vuole tanto tempo per capire, pensare diventa un’arma a doppio taglio, oppure bisogna mettere il disco orario al pensiero per evitare sconfinamento in territori ansiogeni, che guarda caso sono sempre dietro l’angolo.

Giuditta

Il gatto nell'erba

Davanti alla finestra non penso a niente di particolare. Vedo un remoto passato e un futuro che mi procura una sottile angoscia. Di notte sogno, sogni strani, che svaniscono al risveglio. Sul davanti la casa, alla fine di un viottolo, c’è un prato.

Su questo vi sono due ciliegi. Uno più piccolo e defilato, l'altro  sta in centro. Quello centrale è grande e grosso, ma i suoi frutti non sono buoni da mangiare. Come certa gente, sono solo apparenza e quando li hai provati sono senza sapore, e per di più cattivi.

Fioriti sono uno splendore. Il mio personale Giappone. In Giappone non ci sono mai andata, ma mi affascina moltissimo la sua cultura e la sua storia. Avevo un libro, in tempi non sospetti, che parlava della società giapponese, più di vent'anni fa. Per dire, che non risale all'altro ieri. Ero stata in Cina, e l'anno dopo avevo in programma di andare in Giappone. Poi mi sono ammalata gravemente. Ma questa è un'altra storia, vi dirò in un altro momento, o non ne parlerò affatto.

Ora sono passati dieci anni e chissà mai se ci andrò.

Del Giappone, mi intriga la cerimonia del the, che è una polvere verde ramarro. Mescolata con acqua dà una sorta di pappetta difficile da mandar giù, dal sapore vagamente amarognolo. Lo so che in Giappone ci sono diversi the, quello verde in polvere è quello che preferisco. Gli altri the hanno uno strano gusto di alga. E che dire delle geishe, tutti i libri sul Giappone, ne parlano. Con le loro faccette dipinte, sono ridondanti nell'abbigliamento, ma astratte come se guardassero sempre un giardino zen o ciliegi in fiore.

Ora questo gatto stava nell'erba alta, nel prato, dove ci sono i due ciliegi, si vedeva parte della testa e della coda che muoveva con ritmo, su e giù, come se avesse in mente un ritmo sincopato.

Questo gatto se ne stava tranquillo e rilassato, senza nessun pensiero al mondo, tranne che godersi la sua siesta. Penserete che ho fatto degli studi sui gatti, invece non so niente, proprio niente. Ma quando vedo un gatto, so capire il suo stato d'animo, perché il gatto nella sua interezza di gatto, somiglia a una persona e, come una persona, va capita. Aveva, sicuramente fatto una scorpacciata di erba gatta e si voleva riposare un tantino.

Qui i gatti sono curati moltissimo, raggiungono dimensioni notevoli. Ci sono gatti che sembrano leoni, pacifici e innocui leoni, o tigri. Non si scompongono mai, se tu li incontri per vie di questo borgo, non ti degnano neppure di un 'occhiata, passano indifferenti, solo come i gatti sanno fare. Non come i gatti di città, che se la vedono brutta in ogni caso. Ma quella è la città tentacolare, come si suole definire ogni città che si rispetti. Solo i gatti di casa ricevono amorevoli cure.

Qui i gatti sono liberi di andare dove più gradiscono, al sole, se  c'è sole, accanto al camino se fa freddo, o in un prato, come stava  facendo il nostro gatto.

Adesso penserete che ci sono cose più importanti che parlare di uno  stupido gatto. Parlare per esempio della fame nel mondo ma, se volessero risolvere questo problema tutti i governanti, nessuno escluso, di ogni fede, religione o razza, si dovrebbero a parer mio, mettere a fare una dieta per un anno. Una dieta che consista di pura aria. Così vedrebbero le cose con più chiarezza, non facendosi prendere da avidità, potere e denaro. Anche questa è una utopia.

Ieri nel pomeriggio c'è stato un violento acquazzone che ha ridotto i miei poveri ciliegi a un ammasso di foglie e fiori bianchi. Petalo per petalo, foglia per foglia. Così finisce anche la bellezza. La bellezza di un albero, nel massimo splendore della sua fioritura.

Anche quella dell'umana specie, senza che si possa fare niente per fermare il tempo.

Gli alberi soltanto hanno infinite primavere. Ciao gatto!

Andromeda