mercoledì 23 novembre 2011

Tra la antiche valli


C'è, nell'Alta Maremma, un paesino che si chiama R. di F., un borgo incantevole, situato com'è tra dirupi e valli scoscese. Là vive o meglio viveva In the Forest, chiamato così perché amava tanto i boschi, da passare più tempo con essi, che con gli umani. Era un filosofo, In the Forest, si vedeva che aveva studiato. Quando veniva da me per lamentarsi del tempo, troppo caldo o troppo freddo, perché gli alberi pativano, lo pregavo di fermarsi un attimo.

Sbrigavo le altre persone, mi mettevo ad ascoltare. Faceva ridere In the Forest, aveva un umorismo cinico ma velato di melanconia, che faceva tenerezza. Portava un cappelluccio che doveva nascondere un parrucchino ma, anzi, lo evidenziava ancora di più. Lo portava estate e inverno. Quando la calura si faceva insopportabile, o quando il freddo dell'inverno faceva sentire i suoi morsi crudeli, lui non faceva una piega, ma mi parlava dei suoi alberi. Era un personaggio, In the Forest.

Quando era tempo di more, mi portava le more, chili e chili di more, quando era tempo di fichi, cestini di fichi. Era generoso In the Forest. Lo vidi adombrarsi quando mi portò un cesto di funghi. I miei nonni erano finiti in ospedale, per via di certi funghi cucinati e poi mangiati. Lo spiegai, con belle parole, per non ferirlo, ma lo sentii borbottare, mentre andava via che giù, nella bassa Italia, si potevano sbagliare ma lui, che li coglieva dall'età sei anni, non si era mai sbagliato. Lo avevo richiamato e avevo accettato i suoi splendidi porcini.

Di norma passava di sabato in farmacia e, quando arrivava mia madre, lui spiegava la sua filosofia di vita: che i boschi e la natura erano quanto di più bello Dio avesse creato.

Quando c'era lui, se arrivavano i suoi amici, Guido, Fosco e Luciano, non si parlava mai di caccia, si parlava del più e del meno. Appena poteva se ne andava, salutava e partiva ...

Chiesi agli amici spiegazioni ma quelli nicchiarono. Si fecero più muti di una banda di ottentotti a cui avessero mozzato la lingua. Dopo qualche tempo, venne fuori tutta la faccenda.

Il padre di In the Forest, durante una battuta di caccia al cinghiale, aveva ucciso per errore, un suo parente ed amico, con cui aveva trascorso l'infanzia, erano stati compagni di bevute, erano inseparabili a caccia C'era stata anche un’ inchiesta, subito archiviata. Ma il padre aveva dovuto sborsare una grossa cifra per risarcire la famiglia dell'amico morto.

Alla fin fine, non si era trattato di un cinghiale morto, si era trattato di un cristiano. Come ebbe a dire Guido.

Al padre di In the Forest, costò una cifra non indifferente, si era trattato di vendere un podere, alcuni boschi e una casa in paese, oltre al rimpianto per l'amico morto e il rimorso di coscienza. Si fece forastico, non volle vedere più nessuno.

Il figlio, di conseguenza, divenne come il padre.

Non si era sposato In the Forest, viveva da solo. Quando si parlava del perché non si era mai sposato, arrossiva e prendeva un'aria nostalgica. Il caso o il fato, diceva, o perché non aveva mai trovato qualcuna che amasse tanto gli alberi come lui.

Dopo quella tragedia, perché di una tragedia s'era trattato, gli era rimasto, alla morte del padre, una valle incontaminata, piena di boschi. Castagni, larici, faggi, tutti alberi di prezioso legname.

Ma In the Forest, non avrebbe mai tagliato un albero. Aveva sofferto come un cane, quando aveva dovuto abbattere un intero filare di alberi, perché avevano preso una malattia di cui non ricordo il nome.

Sono così gli uomini dell’ Alta Maremma.



Così come Guido che, trasportato in Sicilia, alla punta estrema dell'isola, davanti a quel mare piatto, ebbe un groppo in gola, rammentando come erano belli suoi boschi. A nulla valsero le parole di quanti erano vicino a lui. Solo mare, solo mare, c'è solo mare. Inutile dirgli che i boschi li avrebbe trovati a circa un'ora di macchina. In the Forest invece non si era mai mosso, era vissuto sempre nel suo paesino. Ogni tanto andava a G., ma secondo lui c'era tanta confusione di macchine e di gente.

Ora mi dicono che se lo è portato via un infarto durante la notte, ma non voglio credere che sia morto, che non mi parlerà mai più dei suoi boschi, dei suoi castagni, dei suoi amatissimi pioppi, dei suoi faggi, che amava come tanti figliuoli. Il suo volto si illuminava quando mi diceva che sembravano tanti giganti pronti a proteggerlo in caso di bisogno. Anche se non c'era mai stata la necessità, anzi mi diceva che si sentiva come cullato nel ventre dei suoi boschi. Mi rimane nell'aria, il suo ultimo saluto: "Ci si vede". 


Andromeda

Tom e il vecchio

Tom e il vecchio


Tom si guardava le mani, erano mani belle, agili e nervose, ma il lavoro nei campi della Luisiana vi aveva già impresso linee dure e nette. Si ricordava il suo arrivo a Napoli, gli scugnizzi, il frastuono, il vino bevuto in una trattoria e poi l’andare a letto con una donna, una donna qualsiasi. Aveva poi conosciuto Lisa, una ragazza friulana: quelle sue mani, nere come
il carbone, sapevano scuotere sin nel profondo delle viscere la giovane donna. Tom di quella ragazza diciottenne si era innamorato a prima vista, da quando l’aveva incontrata nella camera d’affitto, vicino alla Base Aerea.

Troppo vicina, pensò Tom. Accese una sigaretta: la divisa blu di sergente dell’Air Force giaceva a sghimbescio sulla sedia. Le sue mani nere,il suo corpo nero piacevano a Lisa, avevano il profumo selvatico del bosco, gli aveva mormorato un giorno nell’orecchio. Il suo odore di nero! Tom lo sapeva... Infatti il vecchio non ci stava. Tom lo aveva incontrato scendendo dalla macchina, il giorno in cui era venuto a portare la sua roba.

Il vecchio usciva da una stalla, aveva un paio di stivali sporchi ed un buffo cappello, con una strana penna su un lato. Tom aveva sentito subito l’odore inconfondibile del letame, era l’odore di suo padre. Suo padre! Uno degli ultimi laggiù a tenere ancora vacche nella stalla, ma presto sarebbe scomparso, come tutto quel mondo che lui odiava, i bianchi, i neri, l’apartheid. Ed ora quel vecchio italiano, che puzzava di letame, non aveva potuto fare a meno di storcere il naso quando gli aveva stretto la mano... Il suo odore di nero!

Il vecchio aveva mormorato una bestemmia , era stato più forte di lui, sua figlia lo aveva avvertito, l’odore di pelle di nero era inconfondibile, ma i dollari non puzzavano e loro avevano bisogno di soldi. Eppure quel nero gli era simpatico, lui se ne fregava della razza, aveva visto cose ben più terribili nel gelo della Russia; lo sentiva dentro, forse erano gli occhi del nero, erano sinceri, forse erano i calli sulle mani nere, erano eguali ai suoi, parlavano la voce dei campi.


Era scesa la sera, un sole d’oro tramontava oltre i boschi del Cansiglio. Il vecchio riposava fuori della stalla, guardava Tom, il volto nero ormai confuso con le ombre della sera. Tom appoggiato allo stipite della porta della sua camera, fumava una sigaretta; il disco rosso del sole scomparve oltre la linea dei monti. La nostalgia gli serrò la gola, si ricordò della piccola fisarmonica, frugò fra la sua roba, la trovò, la portò alla bocca, trasse un respiro profondo e le note struggenti dei canti neri di suo padre, di suo nonno, appena accennate, salirono leggere oltre il fumo della sigaretta, si avvolsero nell’aria fresca del cortile, giunsero al vecchio.


Tom scorse il vecchio alzarsi, sparire per un attimo nella stalla, ritornare con un fodero consunto dall’uso. I tasti bianchi di una fisarmonica luccicarono nell’ombra, le dita del vecchio scorsero agili e lievi, sulla tastiera, descrissero serene le note di una Villotta friulana Insieme le note salirono verso l’alto, non nere non bianche, ma del colore del cielo.


Gianfranco Scilipoti