martedì 1 giugno 2010

Una mano ti sfiora

Con lo sguardo assente,
la bocca aperta,
la testa piegata
verso sinistra,
le mani legate,
sei seduto
in un angolo.

Ti passano vicino ma,
non ti degnano un saluto,
ti passano vicino ma,
non ti vedono:
tu hai la bocca aperta.

Una mano ti sfiora e
accarezza lentamente
i capelli;
il tuo sguardo assente
diventa presente.

Lasci cadere la palla,
che ti tiene aperta la mano e
lentamente muovi gli occhi
verso quella mano che
ti ha toccato.

E’ un grazie
il tuo movimento:
hai detto che sei vivo,
si! Vivo, vivo e
sogni un mondo che
sappia accogliere.

Lucio Miotto

Tom e il vecchio

Tom si guardava le mani, erano mani belle, agili e nervose, ma il lavoro nei campi della Luisiana vi aveva già impresso linee dure e nette. Si ricordava il suo arrivo a Napoli, gli scugnizzi, il frastuono, il vino bevuto in una trattoria e poi l’andare a letto con una donna, una donna qualsiasi. Aveva poi conosciuto Lisa, una ragazza friulana: quelle sue mani, nere come il carbone, sapevano scuotere sin nel profondo delle viscere la giovane donna. Tom di quella ragazza diciottenne si era innamorato a prima vista, da quando l’aveva incontrata nella camera d’affitto, vicino alla Base Aerea.

Troppo vicina, pensò Tom. Accese una sigaretta: la divisa blu di sergente dell’Air Force giaceva a sghimbescio sulla sedia. Le sue mani nere,il suo corpo nero piacevano a Lisa, avevano il profumo selvatico del bosco, gli aveva mormorato un giorno nell’orecchio. Il suo odore di nero! Tom lo sapeva... Infatti il vecchio non ci stava. Tom lo aveva incontrato scendendo dalla macchina, il giorno in cui era venuto a portare la sua roba.

Il vecchio usciva da una stalla, aveva un paio di stivali sporchi ed un buffo cappello, con una strana penna su un lato. Tom aveva sentito subito l’odore inconfondibile del letame, era l’odore di suo padre. Suo padre! Uno degli ultimi laggiù a tenere ancora vacche nella stalla, ma presto sarebbe scomparso, come tutto quel mondo che lui odiava, i bianchi, i neri, l’apartheid. Ed ora quel vecchio italiano, che puzzava di letame, non aveva potuto fare a meno di storcere il naso quando gli aveva stretto la mano... Il suo odore di nero!

Il vecchio aveva mormorato una bestemmia , era stato più forte di lui, sua figlia lo aveva avvertito, l’odore di pelle di nero era inconfondibile, ma i dollari non puzzavano e loro avevano bisogno di soldi. Eppure quel nero gli era simpatico, lui se ne fregava della razza, aveva visto cose ben più terribili nel gelo della Russia; lo sentiva dentro, forse erano gli occhi del nero, erano sinceri, forse erano i calli sulle mani nere, erano eguali ai suoi, parlavano la voce dei campi. 


Era scesa la sera, un sole d’oro tramontava oltre i boschi del Cansiglio. Il vecchio riposava fuori della stalla, guardava Tom, il volto nero ormai confuso con le ombre della sera. Tom appoggiato allo stipite della porta della sua camera, fumava una sigaretta; il disco rosso del sole scomparve oltre la linea dei monti. La nostalgia gli serrò la gola, si ricordò della piccola fisarmonica, frugò fra la sua roba, la trovò, la portò alla bocca, trasse un respiro profondo e le note struggenti dei canti neri di suo padre, di suo nonno, appena accennate, salirono leggere oltre il fumo della sigaretta, si avvolsero nell’aria fresca del cortile, giunsero al vecchio.

Tom scorse il vecchio alzarsi, sparire per un attimo nella stalla, ritornare con un fodero consunto dall’uso. I tasti bianchi di una fisarmonica luccicarono nell’ombra, le dita del vecchio scorsero agili e lievi, sulla tastiera, descrissero serene le note di una Villotta friulana Insieme le note salirono verso l’alto, non nere non bianche, ma del colore del cielo.


Gianfranco Scilipoti

Il centurione Giulio

Correva l’anno 61 D.C. e nelle campagne intorno a Roma erano i giorni in cui il vento di scirocco portava il primo tiepido sole e sbocciavano la malva ed il tarassaco. Il centurione Giulio si sedette su una pietra nera di lava e si tolse l’elmo. Fatto di ruvido cuoio con borchie in bronzo, portava come segno della sua autorità, una piccola lupa sulla fibbia d’argento che stringeva due lacci pure in cuoio . Aveva dato un ordine secco ed i suoi uomini si erano disposti ad un breve riposo – era l’ora in cui il sole era più alto nel cielo – tenendo d’occhio i prigionieri.. Ormai così vicini alla meta sarebbe stato il colmo che qualcuno gli sfuggisse proprio ora.
Erano partiti da Cesarea sei mesi prima, ma appena lasciate le coste sicure di Creta, la loro nave era incappata in una tremenda tempesta e solo grazie alla Dea Fortuna erano riusciti ad approdare sulle spiagge di un’isola chiamata Malta. Accanto a lui un prigioniero attendeva in piedi un suo cenno per sedersi.
Ma quell’uomo in piedi non mostrava alcun segno di sottomissione : il volto magro aveva i lineamenti del Giudeo, ma gli occhi vibravano di una luce intensa e tutta la sua persona emanava una autorità, che il centurione Giulio suo malgrado aveva finito per riconoscere. Quell’uomo sembrava conoscere tutto : durante la tempesta si era mostrato coraggioso ed aveva incitato i marinai. Aveva guarito ferite mortali, conosceva il greco ed il latino.
Si era dichiarato « cittadino romano » ad un processo in Cesarea si era appellato a Cesare. Ma quell’uomo aveva un ben più straordinario potere, quello di piegare il cuore degli uomini. Giulio si chinò, con una ciotola raccolse un po’d’acqua fresca e la porse al prigioniero. Erano in una piccola radura, erano scesi verso un fosso, lasciando l’Ardeatina quando ormai si vedevano lontane le colonne del Forum Julii. Da Pozzuoli avevano seguito la via Appia, ma vicino a Roma erano troppi i carri dei patrizi che la intasavano. Lui conosceva quella sorgente vicina alla villa di un ricco patrizio, Nerva, che possedeva anche degli ampi ed ariosi granai e vi sostava volentieri prima di entrare in Roma Fece cenno al prigioniero di sedersi accanto a lui, i suoi soldati e gli altri prigionieri erano sparsi all’ombra degli eucalipti tra i giunchi e mangiavano il loro pasto frugale di formaggio caprino e olive. Giulio chiese a Paolo :
« Ma questo tuo Signore e Dio, che era un uomo ed è morto su una croce, come si chiamava…Gesù il Nazareno, parlami ancora di lui. Mi hai detto che era potente, compiva cose impossibili, calmava le acque del mare e, tu dici, è salito in cielo. Non capisco, a volte mi sembri un po’ pazzo… »
Paolo lo guardò e nei suoi occhi brillava la Luce : prese un pezzo di pane dalla sua bisaccia, lo spezzò e ne porse al Centurione Giulio.
« Capirai , Giulio, capirai … ». Sette anni dopo la testa di Paolo cadeva alle Tre Fontane.
Duemila anni dopo le ruspe che scavavano le fondamenta dei palazzi di Roma 70 un giorno scopersero un mosaico di una antica villa pressappoco dove oggi ci sono le vie Ascari, e Consolini ,con la scritta - et dux julius- ed un pezzo di pane spezzato in due parti. La stessa notte il mosaico scompariva per mano di ignoti. Un tratto della Ardeatina resiste nel cortile della Annunziatella, mentre il viottolo che scendeva dietro la nostra chiesetta, percorso duemila anni prima dal Centurione Giulio e da Paolo di Tarso è scomparso come anche la sorgente, inghiottiti dalle ruspe e dal cemento.

Ma se tu vai nelle ore quiete di un pomeriggio d’estate, nella penombra della vecchia chiesa della Nunziatella, vedrai una luce brillare sull’altare. E’ la stessa luce, la Luce dello Spirito che un giorno lontano Paolo accese nel cuore del Centurione Giulio.
Scritto a Geel, in Belgio il 19 Marzo del ‘97.


Gianfranco Scilipoti

Riuscire a convivere con la sclerosi multipla

Io ero una persona molto positiva e sempre attiva. Mi bastava guardare qualsiasi mestiere per capire come si fa, di questo andavo fiera.
Un lunedì di Pasqua 1989 non riuscii più ad alzarmi, da allora la mia vita cambiò, tra poussé, ospedale e cortisone, la accettai comunque. Così a poco a poco, eliminai tutte quelle cose che mi piacevano tanto, cioè le gite in montagna e le arrampicate che mi portavano sulla cima per ammirare meravigliosi panorami, assaporando i vari colori di Madre Natura che mi portavano a dire: “grazie Signore per queste meraviglie!”
Rinunciai ad andare in bicicletta da corsa: ricordo un giorno mentre eravamo di passaggio in un paese, c’era un traguardo e anche della gente, io ero davanti a mio marito e loro che urlavano “vai…vai…sei prima!” che spasso!
Deposi gli sci da fondo e da discesa, ma la rinuncia più grossa fu di smettere di suonare la fisarmonica.
Nonostante tutto rimase il mio ottimismo. Se non altro queste cose io le ho fatte!
Quello che più fa male sono le frustrazioni dovute al continuo scontro con le barriere architettoniche, l’indifferenza di certa gente che parcheggia l’auto nei luoghi a noi riservati e se vengono ripresi hanno anche la faccia tosta di risponderti: “Oh! Mi scusi non l’ho visto”.
Tanti atteggiamenti ti fanno sentire diversa! Te lo fanno notare che sei diversa.
Allora l’unico modo è di combattere e farsi sentire: ci siamo anche noi!
Sono passati ormai 20 anni da quando mi è stata diagnosticata la malattia e ho imparato ad avere più pazienza e serenità per riuscire a convivere con la sclerosi multipla.
Io comunque mi sento una donna fortunata, ho un marito che mi segue e mi vuole bene scrivendomi delle poesie quando sono in ospedale.


Naighi

Cosa mi resta

Immaginavo una
cosa diversa,
invece ho trovato
tutto più lontano
da me,
dai miei sogni,
dal mio mondo.

Non è vero
ciò che dicono;
la realtà è diversa:
due mondi
si scontrano.

Non c’è spazio
per me:
non conto più,
i miei sogni
sono abortiti.

Cosa mi resta?

L’unica cosa che
mi rimane è
la malattia.

Lucio Miotto

Mi sento estraneo

E’ tutto come prima:
guardo e non è
cambiato niente.

C’è sempre il quadro,
i disegni sono sempre là,
la sveglia c’è:
non manca niente.

Però, in realtà...

C’è qualcosa
che non va,
che non torna:
sei cambiata tu,
ecco perché
mi sento estraneo.

Lucio Miotto

Le foglie cadono

Sdraiato, obbligato a
stare fermo sento
che la vita va via.

I giorni passano
ma è tutto come
il primo giorno.

Le foglie cadono,
arriva l’inverno ma,
per me è sempre
primavera:
non arriva mai
il tempo
della maturazione.

La speranza,
ogni giorno,
si affievolisce e
arriva l’autunno,
cadono le foglie,
l’erba diventa secca.

Lucio Miotto

In gita al lago

Da quando mi sono ammalata ho cercato di non pensare alla mia malattia e di buttarla dentro ad un cestino.

La malattia è difficile da accettare. Io camminavo con una stampella ed ero costretta a non stare molto in piedi. Adesso che sono su una carrozzina è ancora peggio. Le persone che stanno intorno a me all’inizio sono gentili, ma io mi accorgo che lo fanno per farmi un piacere e non perché lo sentono veramente. Trovo che addirittura mi evitino. Così mi sento un peso morto.

Da quando ho conosciuto il mio compagno mi sembra di essere rinata. È ammalato anche lui, ma mi aiuta il più possibile.
Io vorrei ricominciare a camminare anche con il deambulatore, vorrei tornare come prima. Ma se questo non fosse possibile vorrei essere accettata per come sono. Io non sono solo una persona che non cammina, io sono una persona estroversa, gioiosa, dolce e serena e molto luminosa ma sono anche fragile e tanto sensibile.

L’anno scorso ero in gita al lago con il mio compagno e abbiamo fatto una foto. Io gli ho detto che volevo alzarmi in piedi e lui mi ha risposto: “Io ti ho conosciuta in carrozzina e facciamo la foto così”. Questo mi ha tirato su il morale. Ma lui è l’unico che mi è stato vicino e mi ha portato in giro per il mio paese.

La malattia mi ha permesso di vedere meglio dentro le persone, d’altra parte però vorrei che anche le altre persone guardassero dentro di me... nonostante la malattia.

Pokemon 69

Un punto indica la meta

La violenza
verbale schiaccia
il pensiero.

Una linea allora,
delimita il tuo
spazio.

Una curva,
segna la
tua forza.

Un punto,
indica
la tua meta.

Lucio Miotto

I O.S.S.

Qua al S.Camillo go cognosudo i O.S.S.
Chi sei i O.S.S.?
No..No..Noi xe i O.S.S. de mort !
I O.S.S. i xe tosi e tose co na divisa bianca, so a scoeadura i ga un bordin asuro e sol petto un cerchietto co na croseta rossa.

I xe qua par daghe un agiuto ae persone che ga vudo qualche scarogna daea vita.
Lori i te svegia aea mattina, i te ava, i te cambia, i te sburata a destra e a sinistra i xe abituai a tutto, e po col soevador i te porta so a luna, i te fa girar megio dea giostra a cadene.
I te mette in carosa e te si pronto.

El so avoro continua: letti, coasion, cusina, parché a meso dì tutti i sie servii.
Xe un lavoro duro ma i xe anca sempre disposti a scambiar un soriso e na paroea simpatica.
Par noialtri poveri pasienti, la xe na giornata diversa, cussì no pensemo tanto ae nostre sfortune.

GRAZIE

Betty Boop

Ippoterapia


Al San Camillo del Lido di Venezia c’è un capannone, dove viene praticata l’ippoterapia. Ci sono tre cavalli, si chiamano Ciuffetta, Luna e Bianca. Luna è la figlia di Ciuffetta, lei non viene cavalcata dai pazienti, al contrario delle altre due. Io ho cavalcato con tutte due ma quella con cui mi trovo meglio è Ciuffetta. È una cavalla color marrone con una bella coda e una criniera folta color beige. Bianca è un po’ più alta e magra di colore bianco. Luna è una bella cavalla dello stesso colore della madre con la criniera scura.




La prima esperienza d’ippoterapia fu emozionante! Non avrei mai pensato che un giorno sarei andata ancora a cavallo.
Quel giorno mi ricordai di quando ero bambina e i miei genitori mi portarono al lunapark: c’èra un recinto con dentro un cavallo e i bambini potevano montarlo come fosse una giostra. Mi misero sull’animale e… non vi dico che sensazione! Andava al trotto, e op, e op, mi faceva saltare, mi sembrava di volare e avevo paura di cadere.




Quando ho visto Ciuffetta e dovevo cavalcarla ero nel dubbio e pensavo: “chissà se anche questa mi farà saltare…”. Invece, dopo i primi passi dell’animale iniziai subito a prendere confidenza e sicurezza. Che bello! Mi immaginavo di essere un’ amazzone!




Oltre agli esercizi d’ippoterapia, i terapisti mi hanno insegnato a guidare il cavallo e a non avere timore. Al termine dei cicli d’ippoterapia mi sentivo migliore: più sicura e avevo giovamento nell’equilibrio. Ricordo che la prima volta che ho cavalcato ho portato una mela per ricompensa al cavallo, ma avevo paura di essere morsa con quei dentoni e non mi fidavo a dargliela. Il fisioterapista mi rassicurò e mi disse: “Non ti devi preoccupare, non ti morde!” Con mia meraviglia, il cavallo prese la mela con le labbra senza quasi toccarmi le mani. La sensazione che provai era nuova, mi dava tranquillità e desiderio di conoscere meglio quell’animale meraviglioso.




Ogni anno, quando ritornavo al San Camillo per fare riabilitazione, la mia grande gioia era fare ippoterapia.
Purtroppo sono più di quattro anni che non la faccio più, non so se dipende dal fatto che la malattia è peggiorata tanto che ora cammino a stento. Ad ogni ricovero vedo le mie compagne di stanza che vanno a fare ippoterapia e io provo un po’ di invidia e di nostalgia. Tuttavia quando disegno i cavalli, sogno ad occhi aperti di cavalcare e di essere un’ amazzone.


Naighi

Una mano ti sfiora

Con lo sguardo assente,
la bocca aperta,
la testa piegata
verso sinistra,
le mani legate,
sei seduto
in un angolo.

Ti passano vicino ma,
non ti degnano un saluto,
ti passano vicino ma,
non ti vedono:
tu hai la bocca aperta.

Una mano ti sfiora e
accarezza lentamente
i capelli;
il tuo sguardo assente
diventa presente.

Lasci cadere la palla,
che ti tiene aperta la mano e
lentamente muovi gli occhi
verso quella mano che
ti ha toccato.

E’ un grazie
il tuo movimento:
hai detto che sei vivo,
si! Vivo, vivo e
sogni un mondo che
sappia accogliere.

Lucio Miotto

Mare

Davanti c’era il mare, alle spalle avevo la laguna. Davanti a me c’era il mare con il suo profumo di salino. Raccoglievo conchiglie, come una bambina felice. Ero ricoverata in ospedale, là insieme a tanti ospiti, tutti compresi nel loro dolore, come un fardello che si fatica lasciare. Ricordo, che con miei fratelli, eravamo felici di andare al mare, come dei cardellini scappati dalla gabbia. Che felicità per noi, che smessi gli abiti ci mettevamo i nostri costumini. I ricordi mi arrivano a fiotti, come dei flash, ma al presente ,dovevo pensare. Al passato e al futuro ci penserò poi.

Sono molto stanca, dolorante, nel fisico e nell’anima, sono a pezzi. Ho notato si che quando si soffre, in qualche modo si diventa più brutti. E io non voglio diventare brutta. Voglio invecchiare quasi onestamente, con le mie creme, i miei filtri magici, le mie pozioni, le mie tisane. Voglio invecchiare a poco a  poco. Lentamente, molto lentamente Non voglio diventare vecchia, perché, quando si è vecchi, i giovani ti scansano, non ti abbracciano, ti lasciano lì e, non ti vedono.

Sei brutta. Come si dice in una poesia dei lirici greci, inviso ai giovani. Non so di quale autore, si tratti Archiloco, o Tirteo, Alcmane.

Se non ricordo, male era quest’ultimo.

La spiaggia, è magnifica, tutto questo posto è incredibile, ci sono tramonti sulla laguna da togliere il fiato. Un paesaggista, che sa il fatto suo, urlerebbe di gioia, a vederli. E tutt’intorno a questa meraviglia un verde, dalle mille sfumature. Ora si fa verde tenero, con colore dei prati, ora, si fa verde intenso, per una macchia improvvisa di alberi. C’è sulla collina, una casa rossa, con tante finestre in fila, che se avessi il genio di Hopper, avrei già dipinto.

Se non ci fossero le zanzare. Perché, vedi, in questo paradiso ci sono zanzare. E che zanzare, la temibile zanzara tigre, che è la più feroce.

Le settimane sono diventate mesi e, tante cose sono successe, alcune belle altre di meno. La convivenza è sempre difficile. Far stare in una camera quattro persone, che non si sono scelte e, che non hanno niente in comune che essersi trovate insieme per puro caso, rasenta la follia. Ma questo modo di fare è normale per un ospedale.

Ma voglio parlare di Venezia che mi ha stregato il cuore. Ero andata a Venezia, da piccola, durante infanzia, perché mi aveva portato la zia di Treviso. La zia di Treviso, Maria, forse perché, soffriva di nostalgia mi aveva insegnato il veneto.

Quando mi hanno lasciato lì, le mie amiche, io non mi sono persa d’animo, anzi da quel momento in poi ho cominciato a scorrazzare su e giù per la laguna.

La Salute, con il museo Guggenheim.

Ho visto capolavori famosi e, un pittore che si chiama Prendergast. Un acquarellista, che non avevo mai visto in Italia.

Ho conosciuto molte persone, tutte con le loro fragilità e, con la loro problematica.

Io con loro. Me ne stavo per conto mio, appartata, rospigna, con miei libri. Non volevo che in qualche modo, interferissero con me. Sbagliavo.

Invece, tutti hanno qualche cosa da dare…


Grazie.

Ero una donna a metà e, non lo sapevo, quelle speranze deluse, la mattina mi ritrovava la stessa che alla sera.

E, sempre più infelice.

Grazie, mi avete ridato quella fiducia che credevo persa per sempre.

Grazie di avere creduto, che non ero una cosa morta ma viva, vitale.

Grazie per avermi dato una altra possibilità. Grazie di avermi restituito la fantasia e, quel certo non so che, che chiama gioia di vivere. 

Andromeda

La mattina del 26 marzo

La mattina del 26 marzo 2… resterà nei miei pensieri. Ricordo una macchina e Battista che mi chiede se ho bisogno di qualcosa. Poi il vuoto più assoluto.
Mi sono svegliato trenta giorni dopo in un letto d’ospedale; cos’è accaduto nei trenta giorni che ho passato in rianimazione?
Una cosa è certa: io non c’ero, ero solamente un corpo tenuto in vita artificialmente. Il mio corpo respirava, mangiava ed io non ero cosciente. Cosciente: lo stato in cui si trova chi non è “addormentato”.
Quante volte ho ripetuto questa frase per dare un senso a quei giorni . L’unica cosa che mi viene in mente è un corpo immobile e una schiera di dottori attorno.
Poi un giorno ho aperto gli occhi e ho iniziato a sentire i rumori che mi invadevano: ero vivo.
Ritorno spesso, con il pensiero a quei momenti, e ho un’unica visione: una carta geografica di non so quale paese, una parete bianca e una voce che mi chiede qualcosa. Ripensando a quei momenti non riesco a farmene una ragione.
Riesco solamente a pensare a come recuperare il tempo che ho perso: è un’idea fissa la mia, quella di riprendere da dove avevo lasciato.
Ma non ci riuscivo! La pura di torna re indietro, di ricadere in quella sorta di limbo che è stata la fase acuta della malattia, mi bloccava.
Come scordare il giorno della partenza dall’ospedale civile di Mestre. L’ambulanza attraversò la città e finì la sua cosa a Piazzale Roma; ero stordito, dai colori e dal via vai della gente. Con ma c’era mia moglie: come posso scordare la sua voglia di riscatto che traspariva dai suoi modi di fare. Mai avrei immaginato che Stefania si sarebbe comportata così.
Ho ritrovato la donna che conobbi all’inizio della nostra storia: matura, una donna che sa valorizzare le cose, ma soprattutto disponibile.
Volevo che fosse presente a tutti gli appuntamenti e volevo che le decisioni scaturissero da un pensiero comune: il suo e il mio. Stefania, l’unico motivo di riscatto per me.
Giunsi all’altro ospedale e mi portarono nella mia stanza: ricordo che mi sembrò enorme. Quando entrai ero in barella, rimasi colpito perché c’erano altri due ammalati che erano in uno stato d’incoscienza. Dopo alcune ore mi spostarono e mi ritrovai in una stanza con altri cinque ammalati.
Stefania era andata a casa e io soffrivo per la sua mancanza. Furono giorni terribili: ogni minuto del mio tempo ero con il pensiero fisso di andare a casa. Sono arrivato a rifiutare le cure, mi rifugiai in una sorta di silenzio come se gli altri fossero la causa del ricovero. Mi ammalai di un’infezione urinaria fastidiosa che mi obbligò a letto per una decina di giorni.
Lo scenario era completo: ammalato con la febbre, incapace di muovermi perché colpito da una sorta di paralisi al lato destro del corpo. Tutto era contro di me: la malattia, a questo punto, diventò il mio unico rifugio.
Me ne stavo a letto anche se potevo alzarmi: una sorta di gioco al massacro era nato ed io mi avviavo verso l’autodistruzione.
Furono giorni terribili, la mia voglia di guarire si affievolì. Mettevo in discussione tutto e tutti: la paranoia mi prese e si burlava di me.
Una mattina mi svegliai ed ero diverso: avevo voglia di fare, di confrontarmi con il mondo. Avevo già vissuto lo stato in cui mi trovavo: i momenti svolta, quando si decide che è ora di cambiare, quando un fatto, un perché mettono in discussione le certezze.
Le cose le vedevo com’erano e fu allora che mi resi conto della mia impotenza di fronte a nuovi avvenimenti. Naturalmente nulla è stato facile, anzi, si può dire che cominciava allora la mia nuova esistenza.
Una battaglia era stata combattuta, senza esclusioni di colpi: ha vinto la voglia di vivere, il desiderio di mettermi in discussione per l’ennesima volta.
Cominciai a vedere con altri occhi la fisioterapista che, con pazienza, svolgeva il suo lavoro. Quante volte era venuta, all’ora prefissata, a vedere perché ero a letto e quante volte sono andato da lei con un unico scopo: suscitare compassione.
Ma quella mattina mi sentivo un altro, anche se avevo paura che il desiderio che avevo, in realtà, fosse un espediente per nascondere qualche nuova ansia.
L’ora di fisioterapia passò in un lampo tanto che rimasi deluso: volevo ancora fare flessioni, volevo ancora fare ginnastica.
Il giorno seguente ebbi un incontro con la logopedista: il mio linguaggio aveva subito delle “alterazioni”. Molto spesso non riuscivo a terminare la frase perché non trovavo più le parole.
Forse la paura di non essere in grado di comunicare, la paura di essere escluso, mi diede la carica per ricercare nei logopedisti e nei fisioterapisti un’ancora di salvezza.
Furono giorni indimenticabili, giorni nei quali tutto me stesso era proteso verso la guarigione.
Ricordo che, molto spesso, la notte piangevo perché volevo vedere i miei, mia moglie. L’unica cosa che mi dava la forza per andare avanti era il desiderio di guarire. Mi rifugiai in questo desiderio e tutto il resto non esisteva: sapevo che ce la potavo fare.

Francesco Liberatore

Angoscia

Devastato
nel fisico
ma integro
nella psiche,
mi sono
svegliato
dal coma e
ho ritrovato
le angosce.

Bloccato a letto,
il mondo è
ciò che vedo:
lenzuola bianche,
padelle colme
di urina,
infermiere che
parlano, parlano.

Terribile e
angosciante:
non so più
chi sono.


Lucio Miotto

Paure e debolezze

Nell’ultimo ricovero, ho confidato alla dottoressa che mi segue di avere solo due paure:

la paura di perdere il mio compagno e la paura di non farcela; beh, era una mezza verità, perché queste sono solo le due paure che temo di non sconfiggere, ma di paure ne ho molte: ho paura di affezionarmi alle persone, ho paura di ferire alcune persone con le mie scelte, ho paura di tornare a casa, ho paura di accettare alcune verità, ho paura persino di raccogliere un fiore dal suolo per non farlo morire.

Non le ho svelato questi miei timori, perché non volevo ammettere le mie debolezze, perché in passato nessuno aveva conosciuto il mio lato debole, nessuno mi aveva mai visto piangere, non cedevo mai ad emozioni che non riuscivo a comandare; anche se ero triste o affaticata, mostravo sempre il sorriso, perché così volevo che le persone mi vedessero e se proprio non mi riusciva, tendevo ad isolarmi in tutti i modi, anche i peggiori.

Ora, se ci penso, mi odio per essermi comportata così; sono sempre stata una persona che ascoltava molto, ma non parlava mai di se; perché mi sentivo forte, perché mi sentivo più sicura e pensavo di potercela fare anche da sola in tutte le situazioni.

Non ho mai avuto rispetto del mio corpo e del mio animo, ma non avevo calcolato che la vita è avida di verdi primavere, non avevo calcolato un tale evento.

Ho preteso troppo da me stessa, ho schiacciato troppo “l’acceleratore”, ma a quale scopo?

Rifletti su queste cose solo quando è troppo tardi, forse perché esperienze troppo dolorose ti cambiano e, se posso permettermi, ti rendono anche più sensibile e più suscettibile.

Ora ho tre possibilità per guarire; la prima è già svanita come vola via un sogno in uno schiocco di dita. Era la possibilità di sottopormi ad un’operazione neurochirurgica, ma lo specialista che ho consultato ha pensato che fosse troppo rischioso; penso di essere riuscita ad odiarlo quando ha pronunciato quelle parole.

Il dispiacere, chiaramente, è rimasto anche perché confidavo in questa operazione, affinché risolvesse i miei problemi in modo immediato; so che non li avrebbe risolti tutti, ma di sicuro, annullando il problema che mi pesa di più, mi avrebbe facilitato molte cose.

Il medico che mi ha visitato, poi, mi ha lasciato un po’ perplessa, perché ha affermato che è passato molto tempo dalla data dell’incidente e questo gli fa pensare che non tornerò come prima.

Se Dio ci ha messo pochi secondi per cambiarmi la vita, ci ha messo cinque minuti per distruggermi un sogno che poteva dare una svolta decisiva alla mia sofferenza; mi restano altre due possibilità che hanno tempi più lunghi e come risultato, il solito punto di domanda.

Qual è il senso di combattere al fine di raggiungere la completa guarigione, se ci metto così tanto tempo a guarire? Quale scopo può avere la mia vita se ci metto altri cinque o sei anni per riprendermi?

Solitamente, tutte le cose che accadono hanno un senso, ma non ne trovo uno in questa.

Quando ho avuto l’incidente, ero una donna agli esordi; avevo la giusta età per avere un figlio, ero una ragazza decisa e che ambiva a posizioni lavorative sempre più alte, avevo voglia di vivere!

Ora sono una donna già matura, senza un figlio, che non ha ripreso il lavoro che amava tanto, perché provava vergogna a rientrare sul posto di lavoro dove prima davo il massimo, perché presentavo alcuni disagi e oltre ad aver perso tutte le cose materiali che io ed il mio compagno ci eravamo costruiti in quindici anni di convivenza, ho perso gran parte degli affetti più cari che avevo.

Come posso trovare un senso a tutto questo?

Ho fatto cose anche sbagliate, ma che molti ragazzi della mia età facevano; allora perché proprio a me?

E’ passato tanto tempo dall’incidente, ma la domanda che ho in testa e alla quale non so trovare una risposta è sempre la stessa: “Perché?”.


Free

Pensieri, sensazioni, emozioni

Quando ho compiuto 30 anni, ricordo d’aver fatto questa riflessione: “Ho 30 anni, mi sono sempre divertita, ho una casa arredata come voglio io, una famiglia che, per fortuna, è tutta in buona salute, una macchina mia, un compagno con cui ho un rapporto di complicità invidiabile, un lavoro che mi piace, di responsabilità e ben retribuito. Che cosa voglio di più?”.


A 31 anni non avevo più niente di queste cose; il Signore ci ha messo sette giorni per creare il mondo, ma pochi attimi per cambiarmi la vita.


Il... (data) è stato l’ultimo giorno di luce per me, poi... il buio.


Ho perso tutto quella sera, mi è rimasto solo il mio compagno o forse l’ho già perso, non lo so!


Mi sono aggrappata a questa vita con tutte le forze che avevo, perché con i suoi vizi e con gli errori suoi, era comunque la mia vita e la rivolevo indietro.


C’è stato un periodo in cui pensavo di esserci riuscita, di averla ripresa in mano, ma è stata solo un’illusione.


In passato, ho sempre amato essere vincente in tutte le cose, ma non so se vincerò anche questa partita. E’ troppo difficile!


So solo che, tra momenti alti e momenti bassi, ci ho provato. E’ una magra consolazione, ma è l’unica cosa sicura che mi resta.


Del resto un uccello che inizia a parlare, smette di volare, perché le parole pesano troppo; ed io, di parole che mi hanno fatto male, ne ho sentite fin troppe e le ali mi si sono spezzate.


I primi anni dall’incidente, tanti problemi procurati dalla famiglia, mi hanno creato il deserto intorno; poi il mio compagno che non ha retto la situazione.


Ma la verità è che così non mi sopporto più!


Quando tutto sarà finito, me ne andrò dalla mia città senza mai voltarmi indietro... me ne andrò da li, lasciando un pezzo di cuore, ma anche tanti brutti ricordi.


Alla tv ho visto una clinica chiamata “La clinica dei risvegli” che ospita persone che si devono risvegliare dal coma e dove vige una tranquillità e una serenità divina: quella che non ho avuto io.


Free

Perché la solitudine

A gennaio 2…. si è chiusa una finestra
al paese mio: era la mia.

In un freddo gennaio, “morivo” anch’io.

Chi avrebbe mai immaginato
un destino così spietato,
un amore negato: quello di mamma.

Una spina nel cuore
che ogni volta che i miei pensieri mi avvolgono,
mi fa male, male, male.

Perché, perché, perché,
doveva succedere proprio a me.

Si è soli in questo mondo,
solo i brutti ricordi continuano
a rimanere accanto a me.

Strilli, urla,
di chi mi assisteva in un brusco risveglio
che è stata la mia realtà per un lungo periodo.

Ma è ora di opporsi,
riprendere indietro tutto quello che mi è stato tolto,
per non deludere chi mi ha teso la mano.

Avrei voluto un figlio,
ma come avrebbe fatto il piccolino
a cavarsela senza di me?

Avrei voluto molte cose,
ma per il momento è meglio accontentarsi
di odorare il profumo delle rose
e continuare a pensare:

perché, perché, perché?

Free

Preghiera

Ho messo
la mia vita,
nelle tue mani

Non lasciare
che altri invadano
il mio corpo,
il mio spirito.

Lucio Miotto

Un punto indica la meta

La violenza
verbale schiaccia
il pensiero.

Una linea allora,
delimita il tuo
spazio.

Una curva,
segna la
tua forza.

Un punto,
indica
la tua meta.

Lucio Miotto

Le scale della vita

Pensavo fosse molto più facile salire i gradini della vita, pensavo che una volta raggiunti alcuni traguardi fosse stata una passeggiata continuare ad andare avanti, ma non è così!

Basta un attimo per trasformare quelle scale in alti gradini e poi in montagne invalicabili.

E' triste perdere la propria libertà, la propria autonomia, il comando di se stessi.

Ed è quando si è già provato a salire quelle scale con tanta fatica e non si è riusciti a raggiungere i risultati che si speravano di ottenere, che vorresti parlare con il mare e chiedergli di trasportarti con le sue onde lontano, lontano.

Questo chiederò al mare se ne avrò occasione, spero di avere una risposta soddisfacente; lui mi accompagnerà alla libertà che attendo da tanto tempo.

Ascoltare il rumore delle onde, sognare, perché i miei pensieri sono sogni e i sogni, se si è fortunati, si realizzano.

Free

Sognare

Cerco l’isolamento,
tra la gente,
per non soffrire più.

Più la verità
mi appare,
più mi estraneo.

Fuggire,
fuggire lontano
per non vedere.

Nascondo
i miei pensieri
a tutti

Cerco pace
nei sogni:
passeggio,
passeggio.

Lucio Miotto

È tempo di raccontare…


È difficile talvolta descrivere il rapporto che si crea con i pazienti, durante lo svolgimento del lavoro, perché si ha paura di svelare le proprie emozioni. Il paziente del quale vorrei raccontare è un uomo, affetto da una malattia degenerativa, il nostro incontro è stato casuale ma speciale fin dal primo momento, quando è giunto nel reparto dove lavoro.

In particolare vorrei raccontare un episodio molto difficile da affrontare per me. Tutto è accaduto improvvisamente in una calda giornata di luglio, al mio arrivo in reparto al mattino presto, mi hanno informato che lui stava male, era giunto il momento anche per lui della scelta. Non respira bene, non apre gli occhi , io so che ha tanta paura, lo guardo, mi avvicino a lui, poggio la mia mano sul suo petto per tranquillizzarlo e lui apre gli occhi, i suoi grandi occhi, mi guarda e io lo rassicuro dicendo “sono qua, non preoccuparti, presto ritornerai da noi”, mentre va via, trasferito in altro ospedale per eseguire un intervento che gli consentirà di respirare meglio ma in modo meccanico, io scoppio a piangere e in quel momento mi sembra di non essere professionale, ma di essere una persona con dei sentimenti “visibili”, capisco“per me lui è speciale”.

Mentre sono qui e scrivo le sensazioni di quel giorno, dal mio viso scendono lacrime, è un rapporto speciale, è bello essere speciale per qualcuno, non trovo le parole giuste per definire meglio cosa provo dentro di me.

Vorrei terminare con una riflessione: è strano che tutto questo capiti a me, io che ritengo di avere sempre tutto sotto controllo, che sempre pensato che la mia integrità e professionalità vada oltre il sentimento. Questa volta no, non è  stato così, la vita è imprevedibile, è proprio vero che mettere a nudo i sentimenti fanno di te un essere umano, sempre, comunque e ovunque.

A lui voglio dire: ho lavorato per te con immenso piacere.


Alocenfia