martedì 1 giugno 2010

Paure e debolezze

Nell’ultimo ricovero, ho confidato alla dottoressa che mi segue di avere solo due paure:

la paura di perdere il mio compagno e la paura di non farcela; beh, era una mezza verità, perché queste sono solo le due paure che temo di non sconfiggere, ma di paure ne ho molte: ho paura di affezionarmi alle persone, ho paura di ferire alcune persone con le mie scelte, ho paura di tornare a casa, ho paura di accettare alcune verità, ho paura persino di raccogliere un fiore dal suolo per non farlo morire.

Non le ho svelato questi miei timori, perché non volevo ammettere le mie debolezze, perché in passato nessuno aveva conosciuto il mio lato debole, nessuno mi aveva mai visto piangere, non cedevo mai ad emozioni che non riuscivo a comandare; anche se ero triste o affaticata, mostravo sempre il sorriso, perché così volevo che le persone mi vedessero e se proprio non mi riusciva, tendevo ad isolarmi in tutti i modi, anche i peggiori.

Ora, se ci penso, mi odio per essermi comportata così; sono sempre stata una persona che ascoltava molto, ma non parlava mai di se; perché mi sentivo forte, perché mi sentivo più sicura e pensavo di potercela fare anche da sola in tutte le situazioni.

Non ho mai avuto rispetto del mio corpo e del mio animo, ma non avevo calcolato che la vita è avida di verdi primavere, non avevo calcolato un tale evento.

Ho preteso troppo da me stessa, ho schiacciato troppo “l’acceleratore”, ma a quale scopo?

Rifletti su queste cose solo quando è troppo tardi, forse perché esperienze troppo dolorose ti cambiano e, se posso permettermi, ti rendono anche più sensibile e più suscettibile.

Ora ho tre possibilità per guarire; la prima è già svanita come vola via un sogno in uno schiocco di dita. Era la possibilità di sottopormi ad un’operazione neurochirurgica, ma lo specialista che ho consultato ha pensato che fosse troppo rischioso; penso di essere riuscita ad odiarlo quando ha pronunciato quelle parole.

Il dispiacere, chiaramente, è rimasto anche perché confidavo in questa operazione, affinché risolvesse i miei problemi in modo immediato; so che non li avrebbe risolti tutti, ma di sicuro, annullando il problema che mi pesa di più, mi avrebbe facilitato molte cose.

Il medico che mi ha visitato, poi, mi ha lasciato un po’ perplessa, perché ha affermato che è passato molto tempo dalla data dell’incidente e questo gli fa pensare che non tornerò come prima.

Se Dio ci ha messo pochi secondi per cambiarmi la vita, ci ha messo cinque minuti per distruggermi un sogno che poteva dare una svolta decisiva alla mia sofferenza; mi restano altre due possibilità che hanno tempi più lunghi e come risultato, il solito punto di domanda.

Qual è il senso di combattere al fine di raggiungere la completa guarigione, se ci metto così tanto tempo a guarire? Quale scopo può avere la mia vita se ci metto altri cinque o sei anni per riprendermi?

Solitamente, tutte le cose che accadono hanno un senso, ma non ne trovo uno in questa.

Quando ho avuto l’incidente, ero una donna agli esordi; avevo la giusta età per avere un figlio, ero una ragazza decisa e che ambiva a posizioni lavorative sempre più alte, avevo voglia di vivere!

Ora sono una donna già matura, senza un figlio, che non ha ripreso il lavoro che amava tanto, perché provava vergogna a rientrare sul posto di lavoro dove prima davo il massimo, perché presentavo alcuni disagi e oltre ad aver perso tutte le cose materiali che io ed il mio compagno ci eravamo costruiti in quindici anni di convivenza, ho perso gran parte degli affetti più cari che avevo.

Come posso trovare un senso a tutto questo?

Ho fatto cose anche sbagliate, ma che molti ragazzi della mia età facevano; allora perché proprio a me?

E’ passato tanto tempo dall’incidente, ma la domanda che ho in testa e alla quale non so trovare una risposta è sempre la stessa: “Perché?”.


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