venerdì 8 maggio 2015

Giorni

Convegno Medicina Narrativa San Camillo
contributo di (Stefano Sechi)
 
Da una finestra un alto muro grigio a lato, delle finestre di fronte quasi sempre chiuse, un grande albero dalle foglie che andavano ingiallendosi e pian piano cadenti, uno sprazzo di cielo se le serrande fossero state aperte ma la notte erano sempre chiuse, le stelle e la luna si potevano immaginare avendone voglia e io forse l’avevo… 

A Padova in un Ospedale dove seguivo una lunga riabilitazione, in una grande camera, c’era vicino a me un collega d’avventura con problemi abbastanza seri, diventammo un po’ amici, Antonio, così si chiamava, sarebbe partito poi per un lungo viaggio. 

Raccontavo e mi raccontava storie anche lui qualche volta, aneddoti, storie magari inventate, fatti veri.

Gli tenevo la mano, lui non parlava già più, annuiva, sorrideva, spesso rilassando solo il viso. 

Erano storie della mia infanzia, della mia adolescenza, storie sognate di un tempo, di allora e di ora e … continuavo anch’io a sognare… 

Mi aiutò molto questo. 

Anni prima, alla fine degli anni 80, ero per un lavoro a Cinecittà allo “Studio 5”, il Mitico Studio di Federico Fellini (lo conobbi ma non lavorai mai con lui, all’epoca aveva appena finito di girare “Roma”), nel suo studio personale vi erano ancora molti dei suoi vecchi disegni acquerellati. 

Federico Fellini quando parlava dell’origine dei suoi film diceva che erano sovente nati o completati dai suoi sogni: il mattino si svegliava, li ricordava disegnandoli, poi ci rifletteva, magari anni dopo, collegandoli ad immagini raccolte dal quotidiano, alle sue idee che stavano prendendo forma e lentamente nasceva una storia…

Già… il momento dei sogni è sempre un divenire autobiografico.

Qualcuno parlava di autobiografia del sogno…

C’era comunque per Fellini una fase tecnica, realistica, come per voi medici con noi: un intuizione vi porta a dei segni, un percorso di piccoli schizzi veloci in un quaderno di appunti, nonostante le mille barriere che frapponiamo ad una reale presa in carico del nostro malessere.

C’è bisogno di comunicare, di dare un’empirica realtà a ciò che ci passa attorno.

Scoprii già allora, avendo conferma di intuizioni precedenti, l’esistenza di un filo di luce che ci unisce sempre con l’esterno.

Sapere che qualcuno mi raccontava qualcosa mi aiutava, il sapere che potevo farlo anch’io mi inebriava.

Non conosco i percorsi, i processi chimici per cui il cervello si attiva , però… mi incuriosiscono.

Una ragazza, Alessandra, Set Decorator come me, che era stata mia assistente e che mi seguì poi in questo mio percorso, quando le dissi con riluttanza che cosa avevo avuto e perché non partivo più, con senso di liberazione e complicità acquisita, mi parlò di sua madre: donna di grande cultura ma che da quando aveva saputo di avere la S.M. si era chiusa in una specie di autismo, in una voluta assenza di relazioni con l’esterno; mi chiese di provare a parlar con lei.

Non potevo di certo parlare di aiuti psicologici, non ero la persona adatta, o di una ipotetica presa di coscienza di una situazione imprevista ma reale e in ogni caso imponderabile.

Le parlai molto gradualmente di sua figlia, del nostro lavoro.

Avevo metabolizzato in quei momenti che noi siamo come i bambini, anche noi che siamo e crediamo di essere adulti e che crediamo di capire dentro lo siamo tutti,sotto aspetti diversi.

Capii come per poter parlare tra di noi e con tutti, fosse necessario usare parole quasi elementari, essenziali, più le frasi sono semplici più sono condivise, in un procedere per immagini, per metafore leggibili.

Le mie erano piccole storie quasi fiabesche, mi veniva istintivo l’immaginarle, come con mia figlia piccola per farla addormentare.

Per me e per lei poi diventavano reali e lei lentamente e con fatica mi raccontava altre storie, qualche volta personali.

Le raccontai di quando, molti anni addietro, ci trovavamo in Sicilia: stavamo lavorando ad un lungo film da mesi, era estate piena con un torrido caldo, eravamo in un altopiano della Sicilia, per la maggior parte brullo, aspro e roccioso con piccole colline e molti anfratti.

Eravamo lì dalla mattina e ci eravamo accampati per la notte, sotto la luna e le stelle, in una specie di cerchio provvisorio, attendendo, esausti, assonnati e accaldati, l’alba per girare alcune scene.

Quando Alessandra all’improvviso mi scosse dal mio letargo: quasi urlava terrorizzata, "Ho paura! Là! Làà!".

Un Uomo Nero si muoveva sotto la diafana luce, tra le piccole tende, tra i corpi dormienti, una specie di enorme Orango, un mostro silenzioso e dondolante. 

Svegliammo gli altri già allarmati dalle urla della mia assistente.

L’Orango risultò essere uno degli operai, “manovali” si chiamavano in gergo, che vagava nella notte cercando dell’acqua.

Da allora ogni volta che telefonavo alla madre di Alessandra lei mi chiedeva sempre dell’Uomo Nero e voleva sempre maggiori dettagli.

Con la mia amica tuttora ci sentiamo spesso e ricordando l’Uomo Nero ne ridiamo ancora.

La madre è sempre a Roma, ha trovato altre strade più concrete che semplici telefonate, credo che parli con tutti, che scriva e che continui a sognare.

Queste conversazioni spesso surreali sono servite a lei?
 
E a me?

Noi pazienti ci troviamo immersi in una realtà asettica, siamo praticamente impermeabili agli studi e agli avvenimenti esterni, non però refrattari.

Ci preoccupiamo, anzi ci occupiamo, del quotidiano attraverso le mille abitudini acquisite: abitudini del vivere, abitudini al cibo, abitudini al dolore, alle paure, abitudini alle relazioni, rumorose, silenziose o catatoniche che siano.

Spesso ci potrebbe bastare un piccolo diversivo, come nei film gialli, nei polizieschi, nelle guerre anche vere, per riuscire ad estrapolare una realtà non codificata, come l’Uomo Nero e seguire captando il tenue bagliore di luce di novità o di curiosità, urlando nello stesso tempo il nostro essere.

Avere e creare un “filo rosso” con l’esterno e con l’interno.

Un “filo rosso” è una luce, è il sangue, è una soglia che ci protegge e ci unisce, è la vita, è un cordone ombelicale.

Federica Marangoni, artista contemporanea, che ha lavorato spesso con Fabrizio Plessi, a Ca’ Pesaro, Museo d’Arte Moderna a Venezia, in occasione della Biennale D’Arte 2015, ha creato sulla facciata del grande Palazzo una Linea Rossa, uno Squarcio profondo dal tetto che esternamente divide la facciata per poi sparire immergendosi all’interno: una linea di Comunicazione, una Frattura su cui si medita profondamente.

Negli anni 90 disegnai per una casa oggetti, mobili, luci, tende e mobili da giardino, tutti con un piccolo o lungo filo rosso; Prada lo usa spesso nella moda. Un “distinguo” da analizzare.

Il “filo rosso” è sempre un riferimento, uno spartiacque, una curiosità, un segno.

Noi cosiddetti pazienti, cerchiamo appunto un segno da seguire : lo sono i graffiti preistorici, le architetture, le parole, il cinema, la pittura, l’arte in genere, le emozioni, e la ricerca.

Le codificazioni e le analisi tecniche è probabile vengano dopo le intuizioni e dopo la creatività.

Il desiderio, un battito di ciglia, delle ali d’aquila che ondeggiano in alto nel cielo, dei colibrì quasi invisibili sui fiori, un giardino che cresce e che cambia, delle immagini che svaniscono e si ricompongono, dei sogni che ricordiamo, delle parole che si raccontano e che si ascoltano, che si fanno o non si fanno nostre, che ci apparterranno un giorno, sono sempre segni.

Nel Mito Greco di Orfeo e Euridice, Orfeo voleva riportare Euridice morta a causa di un morso di serpente, dal profondo Tartaro in cui era stata relegata, sulla terra.

Avrebbe potuto farlo solo se lei avesse seguito la sua Musica, la Lira con cui Orfeo incantava gli uccelli, gli animali della foresta e le querce che danzavano. Orfeo sarebbe riuscito con il suo dolce suono a riportare in vita la sua amata Euridice, ma, lui non si sarebbe Mai , Mai, dovuto voltare per vederla, non avrebbe potuto neanche per un solo istante gettare uno sguardo su di lei…

Ma Orfeo all’ ultimo istante si voltò e Euridice tornò negli Inferi.

Non mi dilungherò sulla sorte di Orfeo, ucciso e smembrato dalle Menadi.

La sua testa mozzata e vagante nel Mare Egeo continuò ad ammaliare il mondo con sua suadente melodia fino all’Isola di Lesbo dove sorse un Oracolo in suo onore, famoso all’epoca come e più dell’Oracolo di Delfo.

Qualcun altro parlava dei nostri Miti e Archetipi… La musica di Orfeo è un “Filo Rosso” ante litteram presente in noi.

Cerchiamo di non girarci e se per caso dovessimo farlo pazienza…saremo curiosi della nostra Euridice e del Tartaro, potremmo un domani trovarne un’altra, inventarla, incontrare anche Ade…

Scoprire un nuovo mondo, attendere un altro filo o un sogno… 

Stefano Sechi

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